All'età di sette anni, il 21 settembre 1811, Charles Augustin de Sainte-Beuve (1804-69), vestito da ussaro, venne condotto sulla sommità di una collina per vedere l'Imperatore dei francesi, Napoleone I, che passava in rivista l'esercito. Quell'orfanello - il padre era morto poco prima della sua nascita -, agghindato in foggia militaresca allora di moda, ne fu conquistato: forse nell'atteggiamento, solenne e calmo, dell'Imperatore di fronte ai suoi soldati, severi e entusiasti nelle variopinte uniformi, intravide idealmente quel padre che non aveva mai conosciuto. Fatto sta che Sainte-Beuve divenne un fervente bonapartista. E tale restò fino alla morte. Quando gli giunse la notizia della sconfitta di Waterloo che avrebbe segnato la fine politica di Napoleone I scoppiò in lacrime e, in seguito, allorché il nipote dell'imperatore, Luigi Bonaparte, ormai divenuto Napoleone III, lo nominò nel 1865, con suo decreto, senatore, fu contento di un riconoscimento che ne sanciva, sì, il ruolo di pontefice massimo del mondo delle lettere, ma che, al tempo stesso, ne premiava la fedeltà a un ideale politico che lo portava a vedere nel Secondo Impero tanto la continuazione del primo quanto una espressione di conservatorismo liberale. Che il suo bonapartismo fosse d'acciaio ben temprato, lo dimostra un episodio: il 9 marzo 1855, inaugurando il corso di poesia latina con una lezione sull'Eneide al College de France, esordì sostenendo che Napoleone III, oltre che un «grande guerriero», era un «grande scrittore» provocando, fra gli studenti, tafferugli tali che costrinsero la polizia a presenziare alle lezioni successive.
Sainte-Beuve cominciò presto, non ancora ventenne, la carriera di critico sulla rivista letteraria Le Globe per passare poi alla Revue des Deux Mondes e, infine, per approdare (l'anno successivo agli avvenimenti del 1848 che gli avevano dato l'impressione che «la civiltà» si stesse spegnendo) a Le Constitutionnel e, poi, a le Moniteur, giornali dove ogni lunedì, per anni e anni, avrebbe pubblicato lunghi articoli di letteratura e storia.
Poligrafo infaticabile, scrisse poesie, un romanzo, Volupté, che ebbe fortuna e piacque a George Sand ma, soprattutto, opere di saggistica fra le quali un vero e proprio capolavoro storiografico, la celebre Histore de Port-Royal, suggestivo affresco della cultura giansenista.
Il suo peso nella società letteraria francese dell'Ottocento divenne enorme. Vi contribuì il fatto di aver saputo costruire un vero e proprio tessuto di amicizie e frequentazioni importanti: da Victor Hugo a Gustave Faubert, da Charles Baudelaire a Théophile Gautier. E, poi, non da ultima, la circostanza di essere diventato assiduo, prima, del salotto legittimista di Madame de Récamier e, poi, di quello di Matilde Bonaparte oltre che di altri circoli dell'intellettualità e della mondanità francese nei decenni spumeggianti a cavallo tra la monarchia borghese e il secondo impero.
Sainte-Beuve riscuoteva un grande successo in società, anche se - su questo punto tutte le testimonianze concordano e i ritratti conosciuti lo confermano - non era un modello di bellezza: basso e obeso, con un volto foruncoloso, il naso pronunciato e qualche ciuffo di capelli rossastri sul cranio calvo, lo sguardo furbesco e una perenne smorfia ironica. È stato osservato, con un pizzico di cattiveria, da Henri Furst, che, oltre a non essere «fisicamente piacevole» e a non aver neppure «sembianze virili», sembrava «una vecchia cuoca». Eppure le donne, anche se non volle mai sposarsi e non disdegnò gli amori mercenari, non gli mancarono. A cominciare da Adele Hugo, moglie del grande scrittore e suo amico e vicino di casa, il quale si trovò, per ironia della sorte e quando la notizia della tresca già circolava, a doverne tessere l'elogio nel discorso ufficiale per il suo ingresso all'Academie Française. Quando la conquistò, Adele aveva già avuto cinque figli e Sainte-Beuve, che pure le dedicò un libro di poesie e la paragonò a una dea, non esitò a dire che, dietro il suo aspetto, si celava «il cervello di una pavona». Peraltro, quel che egli pensava delle donne, è condensato in un suo aforisma: «Spesso una brutta donna è più civetta di una bella: la prima provoca gli uomini e l'altra li aspetta».
Le donne sono le grandi protagoniste dei tre grossi tomi, curati da Vito Sorbello, che - con il titolo: I Lunedì. Principesse, amanti, salonnières e muse galanti (Aragno, pagg. 1,472, euro 150) - offrono una suggestiva selezione dei saggi di Sainte-Beuve. Si tratta di una sessantina di profili (dalla Sévigné alla La Fayette, dalla Du Deffand alla d'Épinay), quasi tutti inediti nel nostro Paese, dal momento che le antologie italiane della inesauribile miniera della sua rubrica «Lunedì» avevano privilegiato saggi critici su scrittori come Saint-Simon o su protagonisti della storia e della politica come Talleyrand o Luigi XIV. Questa scelta editoriale, oltre a essere originale, è anche felice e giustificata perché se esiste un Paese nel quale le donne - da Giovanna D'Arco alle favorite dei sovrani passando per le regine dei salotti letterari e mondani - hanno lasciato un'impronta indelebile nella storia, questo è proprio la Francia.
Naturalmente nei ritratti femminili c'è tutto Sainte-Beuve con la sua leggerezza, il suo gusto per la «conversazione» ammiccante e salottiera e l'occhio rivolto all'aneddotica: un metodo che non piaceva a Marcel Proust che lo contestò in un saggio dal titolo Contre Sainte-Beuve. Ma Proust, il grande Proust, aveva torto.
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