Cultura e Spettacoli

Mario Missiroli, persino la monarchia (in Italia) è socialista

Provocatorio e sostenitore di un liberalismo non anglosassone, il giornalista offrì la prima revisione critica della storia del Risorgimento

Lo scrittore e giornalista Mario Missiroli
Lo scrittore e giornalista Mario Missiroli

Con un'eccellente prefazione di Francesco Perfetti, l'editore "Le Lettere" riporta in libreria "La monarchia socialista" di Mario Missiroli (1886-1974), a poco più di un secolo dalla sua pubblicazione (Laterza, 1913) e a 44 anni dalla sua ristampa (Cappelli) voluta dall'ormai anziano autore. Perfetti, al quale si deve una sintetica storia della fortuna dell'opera, pone l'accento sull'influenza decisiva che Missiroli, con il suo ambizioso excursus, esercitò su Piero Gobetti e sul dato innegabile che, grazie allo scrittore e giornalista bolognese (fu direttore di quattro quotidiani: Resto del Carlino , Il Secolo , Il Messaggero e Corriere della Sera ), il tema del rapporto tra Stato e Chiesa è diventato uno dei problemi centrali del Risorgimento italiano.

A rileggere oggi La monarchia socialista si rimane sconcertati dal fuoco d'artificio concettuale che sembra quasi programmato per sconcertare il lettore. Per Missiroli, le grandi rivoluzioni che hanno segnato la storia dell'Occidente sono rivoluzioni religiose e la filosofia del nuovo risorgimento europeo era il punto d'approdo di un movimento «che illuminava al suo bagliore i nuovi problemi della politica e dell'anima e bruciava alle sue fiamme tutti i residui del passato che si opponevano come barriere all'ascensione dei popoli e della libertà». Più vicino a Giovanni Gentile che a Benedetto Croce, evocava una «filosofia dello spirito» che «risolveva tutto il mondo nello spirito, per riconoscerlo poi nella storia, di cui scorgeva l'unità assoluta nel pensiero»; una filosofia della libertà, che «non ammetteva altra libertà all'infuori del pensiero»; una filosofia della ragione che «non poteva vedere che nel cittadino la reale affermazione della libertà moderna che, affermatasi nella coscienza, si realizza nello Stato, unità suprema e forma più alta della vita umana».

Alla luce di queste premesse ideali, Missiroli non poteva certo apprezzare l'opera di Cavour, in cui vedeva l'espressione di un liberalismo inglese, pragmatico e bottegaio, all'esclusivo servizio dell'ambizione sabauda. Cavour «vede ancora lo Stato secondo la dottrina del liberalismo inglese, con la mentalità angusta dell'economista liberale; non sospetta nemmeno che nello Stato moderno si realizzi un'idea universale, che si richiama ad una lunga, tormentosa preparazione religiosa. Lo Stato egli non lo concepisce come un'idea etica, che riassuma nella sua idealità tutta una storia ed un principio razionale, ma come un organismo amministrativo, supremo moderatore di rapporti giuridici; non vi vede simboleggiata una verità dello spirito, il principio supremo della libertà, che sovrasta a tutte le vicende della politica, che non sono ancora storia, e, tanto meno, la storia, ma la garanzia della libertà individuale dei cittadini rispetto al diritto pubblico. Lo Stato è tutto nella costituzione e questa nel parlamento, e Stato e parlamento vivono della monarchia, nella monarchia, per la monarchia». Cavour, la Sinistra storica, Giolitti pongono le premesse di una monarchia che si fa socialista «perché il socialismo è il nemico di ogni grandezza, negazione di tutte le idealità nazionali. Piccolo borghese e materialista è la remora permanente, l'erede della viltà che fu sempre contro la patria, delle paure moderate e infami, che tradirono Mazzini e Crispi».

Terribili i giudizi sul “padre della Patria” Vittorio Emanuele II - «cattivo diplomatico e mediocre soldato» - sul grande Marco Minghetti, uno dei maggiori pensatori politici dell'Italia postrisorgimentale, da lui definito «ultima espressione della vanesia mediocrità borghese», o su Giovanni Giolitti (ovviamente): «in dieci anni egli ha ucciso l'anima nazionale, sopprimendo tutti i contrasti, ma ha salvato la monarchia».

Bolognese, profondamente suggestionato dal quasi conterraneo Alfredo Oriani, per certi tratti Missiroli ritrascriveva, sui piani alti della storia e della filosofia, l'«ahi non per questo» carducciano: qual era stato il senso della lunga lotta per l'indipendenza se, abbandonato a se stesso, il Paese non aveva trovato «nessun impulso originale, nessuna di quelle idealità superiori, che sospingono i popoli sulle vie della gloria?».

Davvero strano almeno per noi, era il liberalismo al quale si richiamava Missiroli, un liberalismo che preferiva Pio X a Leone XIII, e che vedeva nell'intolleranza il valore spirituale supremo. «Lo Stato tollerante non esiste, se è veramente Stato: lo Stato tollerante è lo Stato senza Dio, senza coscienza, senza principi. Lo Stato che tollera tutte le idee è lo Stato per eccellenza intollerante, perché non tollera nessuna idea, nemmeno la sua. La tolleranza è la rinunzia, la confusione delle idee e dei principi, della verità e dell'errore, del bene e del male». Sono paradossi che nel giovane Gobetti sarebbero diventati nobile retorica antifascista e contrapposizione degli animi fortemente determinati e animati da inesausta passione ideale alle coscienze servili, pronte a piegarsi ai compromessi col potere e a passare dal giolittismo pseudodemocratico al giolittismo mussoliniano, nel segno di una continuità umiliante e della rinuncia alla grande promessa del Risorgimento: la rigenerazione morale e intellettuale degli Italiani.

Non mancano, va riconosciuto, ne La monarchia socialista pagine brillanti e persino geniali (ad esempio su Mazzini, sui paesi protestanti, sulla Destra storica, sul Sud...

) ma lo scoppiettio dialettico - che ispirò a Paola Vita Finzi una memorabile parodia, riportata nella sua Antologia apocrifa - alla lunga, è stancante e il libro può rileggersi oggi, soprattutto, come una riprova della lontananza che separava il nostro liberalismo da quello, che certo non va idealizzato, dei paesi anglosassoni.

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