Meglio un brutto festival di una bella libreria vuota

Sta diventando di moda fra le grandi firme attaccare la deriva nazionalpopolare delle varie kermesse letterarie. Che però alla fine alimentano il "pubblico" dei libri

Meglio un brutto festival di una bella libreria vuota

Io non li capisco, agli scrittori, ai filosofi, agli intellettuali. Girano come madonne pellegrine tra i festival estivi, godono finalmente di pubblico vasto ed eterogeneo, si lasciano onorare e trasportare in auto e in giro come autorità, venerati, almeno per una sera, come una volta accadeva al clero. Ma anziché elogiare i comuni e la gente che va a sentirli, si lagnano. In privato dicono cose orribili sui festival che fanno a salsicce la filosofia e friggono la letteratura, pubblicando accennano qualcosa, ma sul palco poi civettano ruffiani con il gentile pubblico.
Tra i più cauti critici delle kermesse da piazza, cito due articoli usciti di recente su la Repubblica, di Roberto Esposito, filosofo, e sul Corsera di Raffaele La Capria, scrittore d'antico pelo. Un ottimo filosofo e un ottimo letterato, entrambi napoletani e quindi vorrei dire etnicamente bendisposti verso una versione teatrale, plateale e peripatetica della cultura. Ma Esposito critica la filosofia in versione mondana, prêt-à-porter, dice che da questa spremuta di filosofia da passeggio non viene fuori un succo di pensiero. E il suo discorso si allarga dai festival ai programmi televisivi e le lezioni pubbliche dei filosofi. La Capria sospetta che la cultura si svaluti nei festival, serva a poco e venda aria fritta; e poi le venerate star culturali sono pagate poco o niente (e qui ha ragione, ma con la crisi dei bilanci comunali è grasso che cola il poco che le amministrazioni pubbliche riescono a investire sulla cultura).
Vorrei dire a entrambi e ai tanti che disprezzano i festival, salvo frequentarli: ma le kermesse di piazza non sono dialoghi di ricerca, non sono la Scuola d'Atene dipinta da Raffaello, non hanno la funzione di far compiere al pensiero e alla letteratura balzi in avanti, o di avvicinare il filosofo e lo scrittore a chissà quale verità originale o perfezione di stile. Sono un bell'esempio, con tutti i loro difetti, di cultura popolare. Avvicinano le piazze e la gente ai libri, alle idee, agli scrittori. Dovremmo essere contenti, soprattutto noi autori. E dovremmo gioire se pensiamo alle alternative che ci sono in giro; anziché vedere un concerto pop demenziale, uno spettacolo con qualche mito idiota-sessuale esibito sul palco, una star della tv dei coglioni animati, vengono a sentire un filosofo, uno scrittore e magari a qualcuno scappa pure di comprare un libro. Tra le rovine del nostro tempo, il festival culturale mi pare una delle rare cose buone partorite negli ultimi anni, anche se qualcuno ricorderà i littoriali della cultura d'epoca fascista, o magari scorgerà un precedente ai festival dell'Unità nelle sagre dell'Uva e nelle feste nazionalpopolari e dopolavoristiche indette del Partito Nazionale Fascista. Ma non si può demonizzare la cultura popolare solo perché evoca il Minculpop. O andando a ritroso, questi festival sono la versione laica delle feste patronali, il rapporto coi santi è occasionale come quello coi libri.
È cosa buona e giusta far crescere il livello d'interesse della gente per spettacoli meno frivoli e volgari o per temi meno catastrofici e deprimenti della crisi economica. È tempo di superare la frattura tra la cultura ritenuta per definizione un circuito chiuso riservato a sette intellettuali, inaccessibile ai più; e l'evento popolare tradotto in triviale e banale. La cultura è una piramide, ci sono i gradini più elevati, forme aristocratiche e perfino vertici di eccellenza non compresi dalle masse; ma c'è una base popolare che non va assolutamente disprezzata e che resta il fondamento di una comunità. A volte, anzi, la grande cultura è cultura popolare e teatrale; tale fu ai tempi di Omero come di Shakespeare, di Dante come di tanta musica, tanto teatro e tanta arte di grande qualità ma di accesso universale, ciascuno secondo le proprie attitudini e livelli di cultura. Bisogna ripristinare la gerarchia nella cultura, stabilire i gradi diversi ma senza squalificare i gradi più larghi e più bassi che ne sono la base.
Il vizio di questi eventi di piazza, oltre a scimmiottarsi e ripetersi, è piuttosto la tendenza a creare una compagnia di giro, politicamente corretta, con un canone ideologico e un frasario prefissato. Insomma, l'Intellettuale Collettivo da passeggio, il Partito Intellettuale in versione porchetta, magari con beatificazione conseguita in tv da Fazio. Ecco il nuovo manierismo. Alle origini di questo vizio c'è la tendenza di molti festival - dei loro uffici stampa e del loro richiamo - a uniformarsi e parlare con una sola voce, radical-progressista, più venature cattoliche, verdi o anarcoidi. Manca chi la pensa diversamente o al più figura come un alibi isolato, una foglia di fico per giustificare poi tutta la Compagnia Conforme.
Viceversa, quando a organizzare questi festival sono sindaci e curatori di centro-destra, sono ignorati dalla Bella Stampa, anche quando hanno successo vero, di pubblico e di qualità. Mi è capitato di notarlo con la festa delle idee di Ascoli Piceno, l'ho visto a Bisceglie ai Libri del Borgo, lo vidi ovunque, da Reggio Calabria ad Acqui Terme, e a Roma in occasione degli eventi per Roma capitale e dei 150 anni dell'unità d'Italia. Ignorati o velenosamente sbrigati in quattro righe, soffermandosi su aspetti del tutto irrilevanti, nel tentativo di affossarli, discreditarli, gettare ombre o comunque sottostimarli; mentre vedi paginate commosse e osannanti sui festival del versante giusto, con la consueta compagnia di giro: e leggi anticipazioni, posticipazioni, annunciazioni ogni dì. Dibbbattiti, con tante b. Ma nonostante l'uso ideologico-mafioso di alcuni festival, nonostante il rischio di farli diventare corsi estivi di indottrinamento fazioso, mi pare che siano una bella occasione per riportare la cultura dove merita di essere - in generale e in Italia in modo particolare -, al centro della vita pubblica, come anima pensante di un luogo.
Al sud si dice che «nel paese dei cecati quello a un occhio fa il sindaco».

Accontentiamoci anche dei festival con un occhio solo - il sinistro, di solito - che sono comunque preferibili alla rozza cecità assoluta di chi non vede la cultura come fonte di identità comunitaria e come lievito per la crescita civile della cittadinanza. Il festival fa comunità e pensiero popolare, turismo culturale e festa di piazza, parola, animazione e lettura. Non è poco. Fatti non fummo per viver come bruti.

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