Torna Jimmy Rabbitte. Cinque lustri dopo l'avventura dei Commitments, il simpatico manager è nuovamente protagonista in un romanzo dello scrittore irlandese Roddy Doyle (La musica è cambiata, Guanda). Gli ingredienti sono gli stessi del romanzo d'esordio: rock, ironia, Dublino, working class, cui si aggiungono la maturità e gli acciacchi propri dei cinquantenni. L'autore è in Italia per il tour promozionale. Ieri sera ha letto un suo testo nella michelangiolesca cornice di piazza del Campidoglio a Roma (Festival Letterature), domani sarà a Genova e domenica a Cremona per partecipare al festival Le corde dell'anima (piazza del Comune, ore 18).
Come vede l'Europa uno scrittore nato e cresciuto in uno dei Paesi che più hanno vissuto vantaggi e contraddizioni dell'euro?
«Il voto di domenica scorsa ci dice che i cittadini si sono stufati di pensare che l'Europa sia un'istituzione creata per aiutare la finanza internazionale e i banchieri. Devo ammettere, però, che essere europei vivendo nella parte settentrionale del continente è fin troppo facile».
Si sente più irlandese o europeo?
«Abbiamo sempre vissuto in un'isola che, per di più, era separata e filtrata dall'Europa da un'altra isola, l'Inghilterra. Il nostro sentimento europeo è ancora troppo giovane. Genuino ma acerbo».
Il suo conterraneo John Banville dice che non si trova a proprio agio a scrivere dell'Irlanda in crisi economica. Eppure Jimmy Rabbitte affronta proprio il disincanto della recessione.
«Per me non fa differenza. Boom economico o crisi, va tutto bene se c'è ispirazione. Di certo non aspetto uno nuovo miracolo economico per farmi venire l'ispirazione».
Però nel suo ultimo libro la crisi è uno dei protagonisti.
«Vero. Però potevo farne a meno. Avrei quindi parlato del cinquantenne affetto da cancro e da un'incurabile nostalgia della musica dei vecchi tempi».
Ritiene ci sia un «canone irlandese»? Quali i maestri?
«La parola maestro inibisce la buona volontà. Niente canone, solo buona letteratura».
Gli scrittori che apprezza?
«Tanti. Inutile parlare di loro. Meglio citare le giovani promesse. Tenete d'occhio Colin Barrett (Young skins) e Clair Keegan (Dove l'acqua è più profonda, Neri Pozza, ndr)».
Dave Eggers sostiene che lei è il numero uno come scrittore di dialoghi. Ha mai pensato di fare il commediografo?
«A Eggers pago un stipendio per questo! In verità di teatro ne faccio, anche se non molto. Giusto un anno fa è andato in scena il musical tratto da The Commitments. Però il romanzo mi è più congeniale. Un romanzo fatto di dialoghi dà forza ai personaggi».
Che nel suo caso restano sempre in attività. Paula Spencer e Jimmy Rabbitte ritornano in più storie. Si sente pirandellianamente assediato dai suoi personaggi?
«No. Sono io che li assedio. Li osservo anche quando non sono in scena. Ho raccontato la storia di Paula in due romanzi a distanza di dieci anni e la stessa cosa ho fatto con Jimmy. Per vedere a che punto erano. E come il tempo aveva modificato il loro modo di agire».
Ora Jimmy usa Facebook, gli sms e le mail. Anche lei?
«Come me, molti miei coetanei si sono bene adattati ai cambiamenti. Non sono su Twitter. E spero che, casomai ci finissi, qualche amico mi prenda a ceffoni. Però mi trovo bene con le mail e sono anche su Facebook. Certo continuo a non capire perché la gente mette i fatti privati in bella vista. Detto questo non rinuncio ai dischi in vinile per un iPod. Anche se senza questo ormai non riuscirei a vivere».
A proposito di musica, è ancora una «via di fuga» o il mercato l'ha schiavizzata?
«Il mercato l'ha sempre dominata. Prima non ce ne rendevamo conto. Ma è così. In fin dei conti la tipica canzone pop dura tre minuti. Perché così era più facile commercializzarla».
Con The Commitments ha vinto la sua personale battaglia di un «soul gaelico». E, come ha spiegato proprio nel racconto presentato a Letterature, una canzone come Mustang Sally appare irlandese. Ne è orgoglioso?
«Orgoglioso no. Divertito sì. E poi quella canzone non mi piace nemmeno».
E la sua canzone
preferita?«Desolation road di Bob Dylan e I say a little prayer di Aretha Franklin»
Però I say a little prayer è di Burt Bacharach.
«Ma come la canta Aretha è divina. L'interpretazione è tutto».
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