Mostar è tutta un souvenir. Il resto terra di nessuno

Dal ponte ricostruito a Medjugorje: se la cava solo chi ha qualcosa da vendere. Quel che resta all'Erzegovina...

Mostar è tutta un souvenir. Il resto terra di nessuno

Quando sali la collina che parte dal vecchio bazar e guardi giù (fiatone permettendo) quello che vedi, è una distesa di pietre bianche frammiste all’erba verde. Sotto le pietre i morti. Una specie di obelisco a segnare la testa, un cippo dove stanno i piedi. Il colpo d’occhio è lo stesso che si avrebbe dopo una grandinata, le lapidi sono così tante che non ha senso contarle. E se ci avvicina a leggere - non deve esserci imbarazzo, di qui passa metà della città - le date sui cippi sono tutte così uguali: dal 1992 al 1995, gli anni dell’assedio di Sarajevo. Quando poi parte l’Adan e da tutti i minareti risuona nella conca di Sarajevo la chiamata alla Salat, alla preghiera rituale, davvero è difficile non provare un brivido. Che aumenta quando ai vocalizzi dei muezzin si mischia il suono delle campane. Ma in fondo questa, la città dei morti, il dono amaro degli dei della guerra, è quello che ci si aspetta, quello che raccontano tutti. Però al di là delle tombe, vicino al fiume limaccioso il bazar è pieno di gente viva. Ci sono ragazzine con la minigonna sedute di fianco a signore velate, c’è il rumore degli artigiani che martellano il rame, ci sono le belle signore che gestiscono i negozi di souvenir e ti rispondono in un italiano balcanizzato: «Ma certo che si può pagare in euro, euro bene, prendi tutto quello che vuoi». Vuoi una cartina della guerra? C’è. Vuoi una tazza con scritto Enjoy Sara-Jevo che scimmiotta i caratteri della Coca-cola? C’è. Vuoi un elmetto, una baionetta, la faccia di Tito, vere foto di veri cecchini, finte foto di veri cecchini? Tranquillo c’è. I supermercati qui si chiamano Konsum e i bosniaci hanno capito che l’unico modo di lasciarsi dietro il passato sono gli euro. Non perderanno l’occasione, né per una finta dignità né per far contente le anime belle che farebbero di questo Paese un sacrario. Vendono il vendibile (non chiedetegli però una tazza con la faccia di Slobodan Milosevic, come era venuto in mente a un italiano, quello è esagerare), si arrabattano, tracciano confini invisibili. E se nella capitale i confini invisibili, che sono la vera cicatrice delle atrocità, si intuiscono, altrove saltano all’occhio. A Mostar, la città del ponte sulla Neretva, il vecchio centro musulmano è stato tutto ricostruito, come è giusto che sia. Sul ponte sciamano i turisti, comprano le penne ricavate dai vecchi proiettili. Fotografano i palazzi sventrati, alcuni dei quali lasciati lì perché, palesemente, piacciono ai turisti. Il lato cristiano di là del fiume è triste nei suoi casoni popolari. C’è la pace certo, ci guadagnano tutti, ma si vede subito chi ha vinto e chi ha perso. Si vede subito da che parte della città andrà a dormire la persona con cui si parla. In tutti i piccoli centri disseminati tra Mostar e Sarajevo questa separazione si respira con l’aria (che in Erzegovina in primavera profuma sempre di miele). E non serve nemmeno guardare la vecchia chiesa o la nuova moschea che occhieggia, geometrica, da dietro il cartello che esalta il lavoro degli sminatori. Anche venendo da un migliaio di chilometri di distanza si capisce chi è chi. E non finisce lì: musulmani, croati, serbo-bosniaci, ebrei sefarditi... Quel che conta è avere qualcosa. Sarajevo ha l’assedio, Mostar ha il ponte, Medjugorje ha la Madonna e guai se gli albergatori sentono parlare di tasse - uno ci dice: «Sarajevo vuole solo e sempre tasse. Ma come si fa a tassare la Madonna?». Quelli in mezzo non hanno niente, solo una brutta cittadina, come Podorasc o Pocitelj, e restano indietro... Restano buttati lì in quel limbo strano e immateriale che galleggia tra i resti della guerra, il costo dei televisori al plasma, le statuette della vergine e i gadget dei massacri etnici.

Cercano di andarsene guidando un vecchio trattore o mettendo su un ristorante improbabile, dove a far girare gli arrosti è un piccolo mulino ad acqua... Ed è in quella terra di nessuno, perché purtroppo non consuma e non è consumata, che bisognerebbe guardare per capire. Ma non si riesce. Persino il navigatore gps si perde: mostra una macchinina sospesa nel vuoto.

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