Nel mare in "Tempesta" affogano sempre i deboli

Il romanzo di Roger Vercel è una tormentata storia di sommersi e salvati. Il capitano eroe protagonista si prodiga per tutti. Tranne che per la moglie, simbolo dell'umanità indifesa

Nel mare in "Tempesta" affogano sempre i deboli

Il capitano Renaud, comandante del «Cyclone», fuori dal mare è come se annegasse. Gli manca il suo elemento, la latitudine e la longitudine che gli permettono di tracciare la rotta della vita. Non che si dia all'alcol, o alle donne, o al gioco, ha un suo status, ci tiene alla sua dignità. Ma la terraferma è per lui niente più che una parentesi insignificante e quindi non la giudica degna di un significato, un qualcosa di inutile, di cui non occuparsi. Anche per questo, per anni, ha imbarcato con sé la giovane moglie, come se fosse l'altra metà di un unico bagaglio a mano e insieme l'unico elemento terreno che valesse la pena avere a fianco, a bordo, al largo... Ma ora lei è malata, invecchiamento precoce ha detto il medico, niente emozioni né fatiche, soltanto riposo e assistenza, e Renaud è atterrito da un futuro che si rifiuta persino di immaginare.

Il «Cyclone» è un rimorchiatore specializzato in salvataggi nelle acque infide della Bretagna. Arriva una richiesta di soccorso e, con qualsiasi mare, si mollano gli ormeggi e si va alla ricerca di chi è in difficoltà. È un lavoro, si è pagati per questo, e a pagare è anche la compagnia della nave che verrà salvata... «Ti devono la pelle, ma ti devono anche dei soldi... Eppure li hai salvati gratis, sei andato a raccoglierli su un relitto quando stava per spezzarsi e andare a fondo con loro. Per riportarli a casa, perdi alcuni uomini, ne ferisci altri, sbricioli la tua barca... E una volta in porto è sempre la stessa storia: ti abbracciano, ti benedicono... E poi, qualche giorno dopo, arriva il conto, e a partire da quel momento, non vali più niente! Tu non hai fatto niente o quasi, vuoi derubare quella povera compagnia, quelle povere assicurazioni! Ci manca poco che non ti diano del predone di relitti! L'ho sentito dire così tante volte che non mi turba più. Fa parte del mestiere... Forse è colpa della terraferma... A bordo non è difficile per nessuno essere un tipo straordinario... A terra torniamo naturalmente mascalzoni, chi più chi meno, nelle piccole come nelle grandi cose».

Tempesta (Nutrimenti editore, pagg. 239, euro 18, traduzione di Alice Volpi) è il romanzo che Roger Vercel scrisse nel 1935 e che nel 1941 divenne un film, con Jean Gabin nella parte del comandante Renaud e la sceneggiatura di Jacques Prévert. Nel 1934, con Capitaine Conan, il suo autore aveva vinto il «Goncourt», il premio letterario più prestigioso di Francia, e anche qui aveva raccontato la storia di uno sradicamento, la difficoltà di essere se stessi al di fuori del proprio elemento. Nato nel 1894, e dunque ventenne all'inizio della Grande guerra, arruolato come soldato semplice e assegnato alla sanità per problemi di vista, Vercel aveva terminato il conflitto da tenente, via via che l'ecatombe delle trincee obbligava alla necessità di nuovi ufficiali. A guerra finita, era tornato in Bretagna, a Dinan, la sua cittadina d'origine, a insegnare letteratura nei licei, ma quella esperienza gli era rimasta dentro e Capitaine Conan (da cui molti anni dopo Bertrand Tavernier trarrà un film) raccontava proprio la difficoltà di chi, «guerriero», si doveva rassegnare a essere «soldato» in tempo di pace, foss'anche la pace rancorosa franco-tedesca di quel primo dopoguerra, con i territori occupati, i corpi franchi, i presidi e i tribunali militari...

Nel 1945, durante la sua ultima notte ad Auschwitz, Primo Levi si ritrovò fra le mani proprio Tempesta (Remorques era il titolo originale) e quella lettura in qualche modo lo aiutò a sopravvivere, l'idea che, comunque, ci fosse la salvezza e che la capacità di resistenza umana potesse essere più forte della sua tenacia distruttiva. Per certi versi, quel romanzo era un inno alla vita, alla forza di volontà, alla fratellanza anche e soprattutto fra sconosciuti e, in seconda battuta, come egli stesso ricorderà, «l'avventura umana nel mondo della tecnologia», l'epica nell'età della tecnica, insomma. Il comandante Renaud ha fatto ancora a tempo a navigare a vela, poi ha dovuto cedere il passo alla modernità e il «Cyclone» è sotto questo aspetto un prodigio della tecnica, ma quando un cavo di rimorchio si incastra nella sua elica, rischia di diventare «ferraglia inerte, meccanica inceppata, ottusa, dotata di una vita profonda che a lui, uomo dei velieri, sfuggiva e obbediva a un altro... Su un tre alberi lottavano, manovravano.

Avevano sotto i piedi una nave scattante, che obbedisce al tocco del capitano. Perfino quando doppiavano Capo Horn ne mollavano di vela! E non c'era nessuna avaria da temere finché si aveva un lembo di camicia da issare su un pennone! E invece su questo maledetto barcone...».

Scritto bene e ben tradotto (tranne i francesismi babordo e tribordo per sinistra e dritta, inesistenti nel nostro linguaggio marinaresco) Tempesta ha dunque diverse chiavi di lettura e di interesse, ma quello che più dà spessore e tenuta al romanzo è proprio l'eccezionalità ritenuta naturale e la normalità fuggita come anormale.

Renaud lotta e si batte per salvare delle vite umane in balìa di un mare burrascoso, ma non ha il coraggio e la forza d'animo per occuparsi di quell'unica, fragile vita che gli sta accanto e che avrebbe bisogno di lui. E anche questo, parafrasando Primo Levi, è un uomo.

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