Credo che chi si occupa di filosofia debba essere grato a Maurizio Ferraris: gli va dato atto di essere riuscito, con una presenza costante sui mezzi di comunicazione, a riproporre in maniera forte la disciplina nel dibattito pubblico. Almeno quello della cosiddetta «borghesia riflessiva» che, come ben sappiamo, spesso tale non è perché facile vittima di gregarismi conformistici e tic verbali e di pensiero politicamente corretti. Ora, il fatto che a questo pubblico vengano presentate da qualche tempo riflessioni su realtà, verità, conoscenza, cioè sui temi classici del pensiero filosofico, non spendibili in modo immediatamente utilitaristico, è sicuramente positivo. Anche se è altrettanto pacifico che, almeno alcuni giornali come La Repubblica, si siano fatti promotori del messaggio di Ferraris soprattutto perché esso è stato presentato, in maniera rozza e approssimativa, come una critica alla società dell'apparenza e alla videocracy incarnate nel nostro Paese, manco a dirlo, dal Cavaliere.
Ed ecco che arriviamo al punto: cosa è, o come è definibile, il Nuovo Realismo patrocinato da Ferraris? Io proporrei di distinguere, alla vecchia maniera di Bacone, una «pars destruens» dalla «pars construens». Dapprima c'è infatti la critica a quello che Ferraris chiama il «postmoderno»; in un secondo momento, in alternativa a esso, si propone appunto la nuova prospettiva. Ovviamente, «postmoderno» è termine generico e vago: una costruzione ideale che non corrisponde alla perfezione con nessun autore o corrente filosofica specifica. Non c'è dubbio, tuttavia, che, a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, si sia affermata una mentalità in lato senso culturale che in filosofia ha coinvolto diverse tradizioni di pensiero: gli epistemologi anarchici tedeschi alla Feyerabend, i neopragmatisti americani alla Rorty e i pensatori deboli italiani come Vattimo. Le loro tesi centrali sono così riassunte da Ferraris: le nozioni di realtà e verità vanno considerate violente e dispotiche, e quindi abbandonate in nome di un'ontologia ermeneutica che è sostanzialmente relativistica e cinicamente disincantata («non ci sono fatti ma solo interpretazioni», per dirla con il celebre aforisma di Nietzsche); occorre essere «teorici ironici», cioè non credere fino in fondo in se stessi, cioè a quanto si dice e fa; è necessario promuovere una «rivoluzione desiderante», cioè liberare definitivamente le dimensioni del corpo e della sessualità (un processo già avviato dalla rivoluzione giovanile degli anni Sessanta).
Col tempo queste tesi si sono concettualmente inaridite, ma, almeno, in Italia si sarebbero, secondo Ferraris, politicamente realizzate nel populismo mediatico di Berlusconi. Ora, lasciando stare questo passaggio alquanto bizzarro e insostenibile per i motivi già illustrati magistralmente da Marcello Veneziani su queste pagine, mi sembra che l'esigenza di mettere un freno alla deriva nichilistica e relativistica assunta da certe forme di filosofia debba meritare il nostro plauso. Ma dobbiamo chiederci: per andare dove? In cosa consiste propriamente l'alternativa proposta? E qui veniamo alla «pars construens» del Nuovo Realismo, con la quale dissento ampiamente. Contro la crisi del postmoderno, Ferraris ritiene che sia necessario cambiare completamente prospettiva di pensiero, ridando compattezza e solidità alla realtà decostruita e delegittimata dai postmodernisti. Egli parla di un «nucleo inemendabile» di fatti e oggetti che nessuna opera di interpretazione o decostruzione potrà mai scalfire e che esistono indipendentemente dalla mediazione del pensiero. Di essi bisogna prendere semplicemente atto. Questi fatti e oggetti costituiscono l'ambito della natura (l'ontologia dice Ferraris), che è del tutto separato da quello della conoscenza (epistemologia nel suo linguaggio). Quest'ultima non deve fare altro che lavorare per «rispecchiare» sempre meglio che può ciò che è fuori di noi.
Ora, questa posizione in filosofia si chiama «realismo ingenuo». Essa non si oppone tanto al postmoderno, ma a tutto il percorso della filosofia degli ultimi secoli. È una posizione naturalistica e premoderna, molto vicina alla logica tomistica dell'«adaequatio rei et intellectus». Ciò significa ignorare il significato del cogito cartesiano, dell'Io penso kantiano, dell'Atto puro gentiliano, solo per fare qualche esempio. Ma soprattutto significa, attraverso la negazione della coessenzialità di pensiero ed essere, assumere come presupposto o postulato ciò che andrebbe dimostrato: la realtà e la verità. I postulati però sono propri delle scienze, mentre compito della filosofia dovrebbe essere quello di metterli in discussione. Ma, a parte questo atto di fede metafisico, ciò che non convince nel Nuovo Realismo è poi anche la concezione non conflittuale della realtà. Gli oggetti e i fatti non possono infatti essere considerati come dati, ma vanno visti come prodotti di un'incessante attività. Contro il postmoderno vanno perciò sì affermate la realtà e la verità, ma la prima va concepita come realtà storica e dialettica e la seconda come la verità delle singole situazioni.
A ben vedere, è proprio la storia ciò che manca in questa prospettiva. Ma chi si rende immune alla storia, prima o poi finisce per accettare, in nome di verità indimostrate, la verità del più forte.
* autore di Liberali d'Italia
con Dario Antiseri
(Rubbettino, 2011)
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