Principe ereditario o parricida È la dura vita del numero due

Martelli e Fini scrivono le memorie, Alfano diventa diversamente berlusconiano. Ecco i loro difficili tragitti paralleli

Principe ereditario o parricida È la dura vita del numero due

Fenomenologia del delfino potrebbe essere il titolo complessivo che riunisce le autobiografie politiche di Claudio Martelli (Ricordati di vivere, Bompiani, pagg. 594, euro 19,50) e di Gianfranco Fini (Il ventennio, Rizzoli, pagg. 244, euro 18) appena uscite, e quella futura di Angelino Alfano (Essere o non essere? Il Fattore Quid, potrebbe essere il titolo). Ma anche Delfini diversi andrebbe bene, perché in fondo ciascuno di essi ha interpretato quel ruolo in modo tutto proprio e originale: da fido scudiero traditore suo malgrado, il primo, da uomo che volle farsi re finito senza regno, il secondo, da figlioccio naturale e poi diversamente berlusconiano, il terzo.
Su Martelli e Fini torneremo più avanti, ma il delfinato alfaniano merita la pole position, se non altro perché il più nuovo e ancora in fieri. Rispetto agli altri due casi, il suo risulta più complicato in quanto si ha a che fare con un delfino suo malgrado. Fra Craxi e Martelli, si sa, fu innamoramento a prima vista; Fini visse da principe ereditario la sua giovinezza partitica, quella almirantiana, e, nella successiva maturità contrassegnata dalla discesa in campo del Cavaliere, parve a molti che la logica politica e anagrafica lo portasse naturaliter alla successione. Alfano cresce invece in un ambiente che di lui sembra non accorgersi, tanto è considerato un'appendice. Quando infine la scelta di Berlusconi lo illumina, non si capisce chi sia il più incredulo fra i due... La storia del «quid» e delle primarie è troppo nota per doverla qui ricordare, ma l'impressione di questi ultimi anni rimandava a un rapporto di fedeltà dato per scontato più che per subito. E invece...
Autore di un parricidio definito «senza sangue», in realtà Alfano si ritrova a essere uscito «dalla casa del padre» (una metafora che nel centro-destra è sempre stata di moda), non essendo riuscito a mettere il padre in una casa di riposo. È un quarantenne, il futuro dovrebbe sorridergli, eppure, a vedere le storie di altri quarantenni di successo non è sempre stato così.
«Avevo quarantanove anni e la mia carriera era finita» scrive infatti Martelli nel rievocare la propria sconfitta, in quel 1993 in cui la Prima repubblica sembra crollare. Lo schiacciano, racconta, l'ira di un capo, Craxi, che si sente tradito, una giustizia tendenziosa che lo ha sempre combattuto e contro cui ha sempre combattuto. C'è del vero, ed è una sorta di nemesi, perché lui era il delfino designato per la successione, perché a lui si doveva quel sodalizio con Giovanni Falcone così aspramente osteggiato dalla magistratura stessa. E tuttavia nella ricostruzione, bella, narcisisticamente bella, che Martelli fa della sua vita, politica e non solo politica, manca singolarmente la comprensione del perché, agli occhi dell'opinione pubblica, ovvero di noi semplici cittadini, i socialisti si trasformassero da risorsa in zavorra del cambiamento. È sì consapevole dell'inquinamento della politica, la partitocrazia onnivora e imperante, ma lo è dall'interno, lo scambia per un effetto della lotta per il potere, non si accorge che ne è divenuto il fine, i partiti, il suo quanto e forse più degli altri, accampati come eserciti mercenari sul territorio nazionale. A corollario vengono i comportamenti, le arroganze, gli esibizionismi, «i nani e le ballerine» di formichiana memoria, il variopinto armamentario di un Psi elettoralmente piccolo che si vedeva grande.
«Primum vivere» era stata la massima di Craxi all'indomani della sua elezione a segretario; nel tempo, stretto fra la Democrazia cristiana e il Partito comunista, diverrà un habitus mentale, l'incubo della subalternità e l'eterno gioco di sponda, il gusto del potere e la paura di perderlo.
«Edonista libertino», affittuario di una bellissima villa lungo una delle più belle vie consolari romane che un suo compagno di partito ribattezzerà «l'Appia dei popoli», Martelli ripercorre nel libro un'epopea che termina in catastrofe. Ciò che è venuto dopo, dice, è stato peggio, ma non sembra capire che, al netto della cronologia, in quel peggio c'è un lascito pregresso.
L'avventura di Fini comincia, anch'essa da quarantenne, proprio dove il cammino dell'altro termina bruscamente ed è, per un buon quindicennio, trionfale. Un partito escluso e ai margini diviene dall'oggi al domani forza di governo e «incredulità» e «sogno» sono a ragione i termini usati per rendere questa metamorfosi. Da quel momento in poi si tratta di trasformarle in realtà, e al termine di quel percorso il partito invece non c'è più, il suo leader non siede nemmeno in parlamento, la dèbacle insomma è totale. Che cosa è successo? Leggendo Il ventennio non si capisce: «Io, Berlusconi e la Destra tradita» è il sottotitolo, ma tradimento è un termine sbagliato se applicato a Berlusconi, che di destra non è mai stato. Caso mai l'ha annichilita, ma è un'altra cosa.
L'equivoco, naturalmente, sta nel termine, che Fini infatti declina nella sua variante di «nuova destra», «destra moderna», «destra europea», aggettivi correttivi che dovrebbero rimandare a una destra vecchia, reazionaria e nazionalistica. Era questo il Msi-Alleanza Nazionale all'inizio della sua avventura di governo? Può darsi, ma Fini ne era già stato, a due riprese, segretario, nonché delfino di quell'Almirante dominus del ventennio precedente, e quindi, se così è, le sue responsabilità non sono secondarie.
Al «delfinismo» reale di Martelli rispetto a Craxi, Il ventennio oppone un «delfinismo» immaginario di Fini nei confronti di Berlusconi. «Non ho mai preso troppo sul serio le sue affermazioni circa il mio ruolo di successore designato», dice l'autore partendo dalla consapevolezza dello «straordinario vitalismo» di chi le pronunciava. «I delfini se non nuotano da soli finiscono spiaggiati» ricorda altresì di aver affermato in un'occasione, un inciso un po' insensato quanto al comportamento dei cetacei, ma utilizzato per ribadire una sorta di alterità. La fusione in un unico partito politico, contraddice un po' questa diarchia immaginata e/o immaginaria, e comunque nell'essere l'erede designato di un leader non ci dovrebbe essere, come Fini sa per averlo sperimentato in prima persona, niente di male...
Dando comunque per buone le sue valutazioni, resta da chiedersi che cosa abbia cementato dal 1994 al 2010, sedici anni dunque, un'alleanza poi finita negli stracci. Per certi versi può soccorrerci un'analogia con le vicende di Craxi, Martelli e il loro Psi. Alla fine degli anni Ottanta, il primo si ancorò alla Dc pensando e sperando che il Pci del dopo muro di Berlino si sarebbe disfatto da solo. Si ritrovò isolato e travolto. Allo stesso modo, Fini si ancorò a Berlusconi, sperando e pensando che l'agibilità politica del Cavaliere fungesse da protezione per la propria ripulitura partitica. Era figlio di un Dio minore fascista, e sapeva che da solo non sarebbe andato da nessuna parte. Costruì una nuova identità, ma fittizia e senza spessore, che nel tempo gli si sbriciolò nelle mani e questo mentre era proprio l'agibilità politica dell'altro a essere messa in discussione. Quando cercò di tirarsene fuori era troppo tardi, si ritrovò anche lui isolato e travolto.
Da circa vent'anni, Martelli fa tutt'altro, se si fa eccezione di un fallimentare Nuovo Psi di inizio secolo. Ha settant'anni, è un po' alla sua terza vita. Fini è un ex da nemmeno un anno, ne ha sessanta, trenta li ha passati da deputato. «Non esistono uomini per tutte le stagioni» scrive in conclusione del suo libro.

Talleyrand avrebbe sorriso e, si parva licet, anche Tatarella.
E Alfano? È ancora troppo presto per un bilancio, ma le promesse, i protagonismi e i pensionamenti della politica hanno in comune, oltre la stessa consonante iniziale, una sorprendente interscambiabilità.

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