Per gentile concessione della casa editrice Giubilei Regnani, pubblichiamo l'introduzione de Nella testa dello Zar, saggio scritto da Emanuel Pietrobon che rientra nella collana I tornanti curata da Andrea Indini.
Nel lontano 1987, il giorno dopo il mio compleanno, venivo catturato dai filo sovietici in Afghanistan alla fine di un lungo reportage con i mujaheddin del leggendario comandante Ahmad Shah Massoud. Un sergente ucraino dei paracadustisti, a tappe forzate, mi raggiunse nel fortino afghano dove ero tenuto prigioniero con l’ordine alle guardie di farmi saltare in aria con un paio di granate se i mujaheddin avessero tentato di liberarmi con un assalto. Il sergente, che non credeva ai suoi occhi di trovarsi di fronte ad un giornalista italiano, chiamò i suoi paracadutisti di rinforzo con gli elicotteri che fecero tabula rasa del circondario per caricarmi a bordo a mezz’aria e portarmi via.
All’aeroporto di Jalalabad un tenente colonello del Kgb mi interrogò utilizzando il classico metodo del bastone e della carota. Neanche con una finta fucilazione riuscì a farsi firmare una confessione preconfezionata che ero un agente della Cia. Però, dal duro interrogatorio, ho capito che gli uomini del Kgb erano i migliori dell’impero sovietico, come Vladimir Putin, ex ufficiale del servizio segreto dell’Urss. Un silovik, scrive l’autore Emanuel Pietrobon, con la convinzione di avere nelle mani il destino messianico di far rinascere la madre Russia. Una certezza che ha portato il Cremlino a superare la linea rossa e aggredire l’Ucraina con un’inaccettabile invasione nel cuore dell’Europa. Nella testa dello Zar non è un semplice libro su Putin, ma la spiegazione di come fosse tutto già scritto con documenti firmati dal presidente russo, che avrebbero dovuto allarmarci da tempo.
Al contrario, fino a pochi anni fa, abbiamo considerato il nuovo Zar “come un liberal - conservatore che sognava di avvicinare la Russia all’Unione europea” scrive l’autore. Non solo a destra con Silvio Berlusconi, ma pure a sinistra con Enrico Letta, che lo accoglieva nel 2013 con il tappeto rosso a Trieste e oggi è l’alfiere della “guerra” contro i russi. Nel capoluogo giuliano, la mia città, è stata l’unica volta che ho visto Putin da vicino, in un incontro ristretto con la stampa. Già allora era un po’ gonfio, ma non per malattie vere o presunte, bensì per il probabile botulino che aveva eliminato le rughe. Dell’incontro a tu per tu mi colpì di più un dettaglio della sua squadra presidenziale di guardie del corpo. Sul bavero portavano tutti uno stemma di riconoscimento che ricordava lo scudo con il gladio, il vecchio simbolo del Kgb, reso più moderno dall’aquila imperiale.
Non avevamo capito nulla del nuovo Zar, ma Pietrobon basandosi su fonti originali in lingua russa dimostra come tutto fosse già annunciato a cominciare dal Manifesto del Millennio del 1999. Per la prima volta viene tradotto e pubblicato fedelmente cosa c’era, da tempo, nella testa di Putin. E chi spera negli oligarchi per un cambio di regime attenderà inutilmente. Uno dei punti è proprio il “guinzagliamento” di questi personaggi, che hanno segnato la recente storia della Federazione russa. L’analisi delle radici storiche del nuovo Zar con il grande paese dell’Est “intrappolato in un loop temporale, condannato a ripetere gli stessi errori e a rivivere le stesse tragedie ogni tot di tempo” è illuminante per capire la situazione attuale. La triade che ispira l’ex ufficiale del Kgb, “ortodossia, autocrazia, nazionalità”, come gli Zar del passato, spiega le apparenti contraddizioni del presente. Oggi, nelle città occupate, i russi alzano la bandiera sovietica della conquista di Berlino nel 1945. Al loro fianco combattono i ceceni che da tempo soni inquadrati nell’esercito. L’autore spiega che l’obiettivo di Putin è “trasformare tutti, cristiani e musulmani, in russi uniti dall'adesione alla bandiera e dalla fede nel conservatorismo”.
In Crimea durante l’annessione del 2014 ero stupito di vedere il mescolamento fra personaggi e simboli contrapposti, che in realtà facevano parte del pericoloso disegno di rinascita del Cremlino. Ufficiali che avevano combattuto in Afghanistan con l’Urss tiravano fuori la maglietta dei veterani a strisce bianche e blu e comandavano gruppi filo russi che prendevano il controllo dei palazzi governativi a Sinferopoli esponendo la vecchia bandiera con la falce e martello della Marina sovietica. Al contrario, a Sebastopoli, sede della flotta del Mar Nero, rispuntavano i cosacchi sventolando lo stendardo con il volto dell’ultimo Zar Nicola II Romanov.
A Donetsk, alle prime scintille della guerra nel Donbass, sul palazzo del governatore occupato spiccava il faccione baffuto di Stalin ed i simboli cosacchi. Tutto amalgamato dalla grande Russia, che voleva spingersi verso Odessa. Un disegno che gli ucraini avevano bene o male fermato fino al 24 febbraio.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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