Cultura e Spettacoli

Quando le avanguardie rosse misero a ferro e fuoco Milano

Quarant'anni fa, nell'aprile '75, i gruppi dell'ultrasinistra scatenarono per vendetta una guerra di piazza in città

Quando le avanguardie rosse misero a ferro e fuoco Milano

«Voi fate quello che volete. Noi oggi mettiamo Milano a ferro e fuoco», dissero quelli di Lotta Continua. Ma quella mattina del 17 aprile 1975 non ci fu bisogno di insistere tanto. Anche i capi degli altri due gruppi che si contendevano la supremazia dell'ultrasinistra milanese - gli stalinisti del Movimento studentesco e i trotzkisti di Avanguardia Operaia - avevano già deciso. Per tutta la notte, nel chiuso delle sedi, la macchina di produzione delle molotov aveva lavorato senza interruzione. Complicate rivalità ideologiche vennero messe da parte. E l'intera galassia della nouvelle gauche fece vivere a Milano la giornata più violenta della sua storia. Mai, nei dieci anni cruciali della contestazione, si vide una simile massa d'urto riversarsi su un obiettivo principale, la sede del Movimento sociale italiano in via Mancini, su un'ampia serie di obiettivi collaterali e soprattutto sull'apparato di forze dell'ordine schierato a loro difesa, che dallo scontro fu sconfitto e messo in rotta.

Tutto era iniziato la sera del 16 aprile in piazza Cavour, dove un corteo del Movimento studentesco proveniente da una manifestazione per il diritto alla casa aveva aggredito un gruppo di missini che volantinavano. Stefano Boeri, oggi archistar, allora diciottenne militante del Movimento, anni dopo accuserà i suoi superiori dell'epoca di avere ordinato l'assalto: «La decisione dei nostri capi fu quella di andare all'attacco. Nella tragedia, una decisione quasi ridicola nella sua insensatezza, perché noi avevamo i bastoni, e dall'altra parte c'era una pistola». La pistola era quella del neofascista Alberto Braggion, che vistosi circondato sparò, e uccise un ragazzo di diciassette anni, Claudio Varalli.

Fu come se un fiammifero acceso fosse stato lanciato su un lago di benzina. Nel giro di poche ore, la notizia della morte di Varalli attraversò Milano. Bisogna leggere le raccolte dei giornali, e il libro di Michele Brambilla L'eskimo in redazione , per rendersi conto di come la tesi dell'agguato fascista venisse immediatamente recepita e data per scontata: anche se le cose erano andate esattamente al contrario. Poco contava, nella Milano di quegli anni, dove le due violenze contrapposte, rossa e nera, non erano certo trattate con la stessa severità dall' intellighenzia dei salotti buoni e dei comitati di redazione. Così, nella notte tra il 16 e il 17 aprile, mentre i servizi d'ordine preparavano l'assalto alla sede missina di via Mancini, sulle pagine dei giornali andava in stampa la versione «ortodossa» dell'uccisione di Varalli. Con l'unica eccezione del Giornale , che era apparso in edicola da meno di un anno, e che già era diventato il nemico da battere: e che infatti l'indomani venne invaso dalle squadre del Movimento studentesco.

Quel che accadde la mattina dopo, il 17, è - a leggerlo oggi - un G8 con quarant'anni d'anticipo; e però con la fondamentale differenza che ad attaccare la polizia non furono isolate avanguardie di Black bloc , ma una moltitudine incalcolabile, compatta e determinata; dove i settori armati di molotov e spranghe (le P38 arrivarono due anni dopo, ed è tutta un'altra storia) erano sostenuti «senza se e senza ma» da decine di migliaia di giovani e di meno giovani, fermamente convinti che l'unica risposta possibile alla morte di Varalli fosse «chiudere col fuoco» una volta per tutte la sede missina. Un Carlo Giuliani ante litteram fu Giannino Zibecchi, militante del Comitato antifascista del Ticinese, schiacciato da un camion dei carabinieri in corso XXII Marzo durante l'assalto a via Mancini: le foto del suo corpo esanime, guardato a vista da un militare, ricordano in modo impressionante le immagini di Giuliani morto a Genova. E un Placanica ante litteram fu Sergio Chiarieri, il carabiniere diciottenne che investì Zibecchi, additato come assassino e poi assolto.

Vennero di lì a poco anni peggiori, quando a impadronirsi dei cortei furono quelli di Autonomia Operaia, e si iniziò a sparare ad altezza d'uomo. Ma erano ormai frange residuali, in via di sbocco verso la lotta armata. L'attacco a via Mancini fu invece un attacco di massa. Il primo sbarramento dei carabinieri, all'angolo con corso XXII Marzo, venne travolto e superato, anche perché erano finite le scorte di lacrimogeni; l'intera via venne data alle fiamme; solo l'ultimo schieramento dei carabinieri resistette, e evitò che la sede venisse invasa ed espugnata. Sul tetto, qualche decina di militanti del Fronte della gioventù si preparava - come ricorda oggi Ignazio La Russa - «a vendere cara la pelle». Ma è facile immaginare come sarebbe andata a finire.

I carabinieri resistettero, nonostante su di loro piovesse di tutto e senza ritegno. L'equiparazione carabiniere=fascista d'altronde era netta: e infatti in contemporanea venne assaltata anche la caserma della compagnia Monforte, in via Fiamma. I carabinieri assediati reagirono a colpi di fucile (come documentò pochi giorni dopo un memorabile numero speciale del settimanale Abc , che riportava anche la tremenda foto del cervello di Zibecchi sul marciapiede), ma per salvarli dovette partire una nuova colonna di camion e jeep dalla caserma di via Lamarmora. La prima vettura della colonna, con a bordo l'ufficiale comandante, fu incendiata appena arrivata in piazza V Giornate. La colonna proseguì, imboccò il corso, passando dai marciapiedi alla corsia contromano. All'angolo con via Cellini, Zibecchi che fuggiva insieme ad altri compagni, fu travolto e ucciso dal camion di Chiarieri.

Fu il punto più alto dello scontro di piazza a Milano. Non si era mai visto nulla di simile prima, e non si vide dopo: come se quei due giorni di violenza e morte avessero segnato una specie di spartiacque. L'onda lunga del movimento del Sessantotto, sorretto da un imponente consenso culturale, aveva toccato quel giorno il punto di massima asprezza, e messo in qualche modo tutti davanti alla ineluttabilità della scelta tra democrazia e violenza.

Detta adesso, sembra facile. Ma in quei giorni di ubriacatura ideologica e intolleranza, un numero spropositato di giovani era convinto che non esistesse limite all'uso della forza contro il nemico. Basti pensare che il 16 aprile, quando in piazza Cavour fu aggredito il gruppetto di Braggion, in una stanza d'ospedale era già in coma da più di un mese un ragazzo di diciassette anni, Sergio Ramelli, anche lui militante del Fronte della Gioventù, aggredito a colpi di chiave inglese da quelli di Avanguardia Operaia. Morì il 29 aprile.

Nei cortei della sinistra, lo slogan più gettonato fu: «Tutti i fascisti come Ramelli - con una riga rossa tra i capelli».

Commenti