Controcultura

Quei ristoranti sono musei. E il gusto vale doppio

La nuova tandenza: i piatti hanno un concorto di opere. Da Milano alle Dolomini, da Roma a Venezia.

Quei ristoranti sono musei. E il gusto vale doppio

Quando la cucina non era considerata arte bensì artigianato imbrattacamicie era più facile. I ristoranti e i bar si riempivano di artisti e letterati talora squattrinati, seduti al tavolo in fondo, che pagavano il conto con uno schizzo, un ritrattuccio, sdebitandosi e al contempo convincendosi di nobilitare un luogo umile e dal profumo di polpette. Ora che gli chef se la giocano da maître-à-penser, è tutto più complicato, perché non c'è spazio nei ristoranti per altri artisti che non siano quelli con il mestolo in mano (mestolo? Giammai: sifone. Al massimo coppapasta).
Epperò la relazione tra gastronomia e arte resta viva, naturale, florida. Cervello e stomaco sono organi in eterna connessione. Pensa come mangi. E a ciò complottano - tra le tante cose - la pittoricità esibita di taluni piatti di alta cucina, il dripping pollockiano citato da Gualtiero Marchesi e ricitato (e recitato) da certi suoi manieristi seguaci fino ai nostri giorni, le scatolette warholiane del maudit Davide Scabin, il riferimento continuo a Roland Barthes, al suo «brucia ciò che hai adorato, adora ciò che hai bruciato» che sembra il motto di un barbecue esistenziale.
C'è un primo livello nel rapporto tra ristoranti e arte ed è quello diciamo così immobiliare. Accade che molti ristoranti eccellenti abbiano sede in musei, solitamente contemporanei. Al Mudec di Milano Enrico Bartolini ha un anno fa riportato nientedimeno le tre stelle Michelin nella città meneghina dove mancavano dai tempi del succitato Marchesi, ma lui, il Bartolini, ci tiene a non passare come ristorante di museo. A Lucca il salace e telegenico Cristiano Tomei piroetta all'Imbuto, dentro il Center of Contemporary Art. A Rovereto il già stellato Alfio Ghezzi da qualche tempo prova a épater les gourmet nel suo Senso ospitato nell'icona postmoderna del Mart. A Plan de Corones, nelle Dolomiti, l'AlpInn declina la severa cucina di montagna di Norbert Niederkofler (tre stelle al St Hubertus di San Cassiano) a margine del Museo della fotografia di montagna Lumen, che si slancia verso la valle come un trampolino, il più grande spettacolo dopo il Big Mac. Ma altri ce ne sono.
In altri casi trattasi di amori consapevoli e non di storie di pianerottolo. A Torino lo storico ristorante del Cambio in piazza Carignano maneggia da sempre un suo nesso con la cultura vantandosi di avere sfamato Puccini e Nietzsche, Marinetti e la Callas. Oggi si connette al contemporaneo con la sala Pistoletto, dove si mangia spiati dai passanti casual convocati dall'artista sotto forma di vetrofanie sugli specchi. L'effetto è una turbativa d'astice.
A Milano c'è il Bar Luce, disegnato dal regista ed esteta Wes Anderson come un baretto anni Cinquanta con tavolucci in formica e juke-box, e panini sperabilmente non d'epoca. Il tutto all'interno della Fondazione Prada, a creare un corto circuito di figaggine che ha solo la pecca di essere palesemente arti-ficioso.
Sempre a Milano Tipografia Alimentare nella antimondana zona Gorla è un nuovo incubatore di idee gastrofilosofiche che finiscono per diventare sempre qualcos'altro. Ci si nutre (bene) e si assiste a presentazioni di libri, a performance, si conoscono persone. Faccio cose, vedo gente, mangio roba. Chi è più figurativo troverà pane per i suoi denti al Rigolo in Brera, quanto di più simile a un ristorante letterario d'antan, luogo caldo e salottesco, con un menu poco avventuristico, oggi gestito da quel Renato Simoncini figlio del fondatore Sivaldo (che nome donchisciottesco!) a cui quando era bambino e gironzolava per le sale Montale e Ungaretti attovagliati chiedevano di declamare certe sue infantili poesiuole. Nella sala dei pittori ci sono quadri di Baj, Giò Ponti, Fiume, in alcuni casi donati a storno del conto o a onorificenza di un gran bollito del martedì particolarmente trionfale.
Amore combinato è quello un luogo come Gli Esploratori, ristorante autodefinito letterario nato a Roma, zona Trionfale, pochi mesi fa (gran tempismo e gran coraggio) come spin off della casa editrice e/o (quella di Elena Ferrante, per dire). Si mangiano piatti della tradizione regionale italiana, si sfogliano i libri del catalogo, si ozia, si assiste a presentazioni, eventi, rassegne.
Infine vi conduco a Venezia, o meglio sull'isola di Mazzorbo, a un tiro di ponticello dalla policromia di Burano. Qui sorge Venissa, il ristorante di un wine resort dell'azienda che qui ha piantato in un hortus conclusus - su cui vigila la sagoma sghemba di un campanile in pensione - un vitigno che stava per scomparire, la Dorona. Storia da raccontare in un altro pezzo, ma la cena in quel luogo, con la cucina di Chiara (Pavan) e Francesco (Brutto), fidanzati, psichicamente complementari (Yin e Jung), ironici, con la laguna che induce a pensieri anticinetici, è la cosa più letteraria che ci sia capitata a tavola negli ultimi tempi balzani.

E sì, c'era un direttore d'orchestra a un tavolo, e uno scrittore famosetto all'altro, ma alla fine è la editor's choice, la scelta di chi scrive.

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