Il racconto

Il monotono lavoro alle edizioni Sollers & Sollers era oramai trentacinque chilometri alle mie spalle. La Fiesta mangiava la strada a una media di centotrenta orari, venti più del limite. Correvo verso delle lasagne al forno e una serata di lettura tutta mia. La radio trasmetteva canzoni rétro che mi mettevano addosso una vaga nostalgia. Occhi fissi sulla strada, tanto per passare il tempo, cominciai a inseguire ricordi.
A ogni curva, un volto.
La musica si interruppe e le immagini nella mia mente calarono nell’oblio. Una voce femminile mi aggiornò sul traffico. Non capii bene; realizzai che l’uscita di ogni giorno mi era preclusa. E già vedevo volare in cielo le mie lasagne insieme a Prosper Mérimée e al mio bicchiere di latte e cannella.
Rallentai, indeciso. Gli stop delle auto davanti alla mia diventavano sempre più rossi. Quasi volessero invelenirmi. Sentii un moto di rabbia. Un ingorgo quantificabile in un paio di ore. Quando accadono queste cose, la mia reazione è salvare il salvabile. Dalle otto di quel mattino perdevo tempo a correggere manuali sulle diete più in voga – South Beach, Eighteen days, Mediterranea pane & olio – cosa che facevo, si fa per dire, solo per fame. L’idea di perdere ancora minuti preziosi mi fece finalmente imbufalire. Ogni pendolare ha provato questa escandescenza.
Ma allo stesso tempo gli incidenti di percorso sono per me motivo di vagabondaggio fecondo: la giornata si poteva ancora recuperare, e sarà così anche a mezzanotte.
Frenai del tutto, accostandomi al ciglio della strada che avevo fatto centinaia di volte ancora prima di essere assunto alla Sollers & Sollers. Ai tempi della mia prima adolescenza mio fratello Anatolio, che aveva appena conseguito la patente e messo le mani su una Volkswagen-Porsche d’epoca dall’illogico colore menta, mi portava, con benevolenza, verso le mie rabbiose escursioni umorali, a «fare l’aperitivo» in un bar elegante, famoso a quel tempo: lo Zelda.
Non so perché me ne ricordai in quel momento. La voglia di tornarci cominciava a farsi largo nel mare di delusioni che ancora mi faceva serrare le mani sul volante.
Sarebbe bastato prendere la prossima uscita e immettersi sulla vecchia Statale, un tempo tragitto obbligato per chi voleva raggiungere la metropoli, se vogliamo chiamare così il paesone immenso dove lavoro, o lasciarsela alle spalle puntando verso i laghi svizzeri. Per questo lo Zelda ha fatto un sacco di soldi. Era lì, tra chi saliva e scendeva. A mio parere, lo Zelda potrebbe essere una metafora per gli anni Ottanta.
Se il tramonto è nella fase giusta, imboccare l’uscita è come scivolare su un nastro di velluto azzurro. Al termine, se il cielo è limpido, si vedono le montagne come sospese all’orizzonte, quasi a ultimare il viaggio.
Misi la freccia. Uscii dall’autostrada.
Dopo qualche tristezza da hinterland e diversi semafori, precipitai diretto negli anni Ottanta. Vecchi mobilifici con esposizioni al piano terra e giardini ancora curati vivono di rendita e di evasione fiscale. Accanto, c’è sempre la villa nobiliare oramai ristrutturata in pessima architettura nouveau riche, perché ancora abitata. Da quando c’è la crisi, inspiegabilmente, si vedono pure dépendance in costruzione.
L’insegna del bar è piccola, uno scudo bianco che sporge poco dall’edificio, come se volesse indicare niente, e solo per necessità.
Un parcheggio fin troppo ghiaioso sta dall’altra parte di una strada non larga che fa angolo con lo Zelda: ricordo di averci passato interi pomeriggi a guardare i tergicristalli scansare la pioggia, mentre le canzoni di Leonard Cohen trasmesse dalla mia Sony facevano tutt’altro che scansare la malinconia.
Presi portafogli e cellulare, scesi dall’auto.
I vetri leggermente oscurati della porta di ingresso si spalancano automaticamente, quando non viene già tenuta «aperta sulla primavera», come canterebbe Paolo Conte.
Dentro, c’è comunque l’aria condizionata in tutte e due le sale – la liberty è la migliore – e parecchie porte a vetri sul parco interno, ben curato, dove una fontanella di dubbio gusto ti fa sentire il fruscio dell’acqua, che è molto meglio, quando si vuol parlare, di qualsiasi sottofondo musicale.
Qualche sera d’estate, rilassati a un tavolo sotto uno dei grandi alberi o sotto il gazebo in ferro dipinto di bianco – lo Zelda semideserto – pare di stare ospiti nella casa di qualcuno sommerso da una valanga di euro. Dipende da quanto hai bevuto.
C’è un pianoforte in fondo alla sala liberty, a coda, tête-de-nègre, ma nessuno lo suona. Lasciato lì in un angolo come un servitore inutilizzato, mentre i camerieri si danno da fare: il ghiaccio viene ancora portato al bancone in grandi secchi di acciaio, e il caposala ha occhi attenti ai desideri dei consumatori.
Di solito ordino variazioni sui cocktail: non whisky sour, ma scotch sour – per motivi sentimentali, e chi ha visto Fuoco fatuo di Louis Malle, questi motivi li può intuire.
Niente fraintendimenti, però: lo Zelda non è bar di quelli dove una volta gli scrittori alla Somerset Maugham, i cardinali, le spie governative e gli inviati speciali andavano a sorseggiare 5/10 di gin, 3/10 di vermouth, 2/10 di Campari.
Non è il bar di un Grand Hotel.
Non potrebbe alloggiare in un romanzo di Graham Greene, al quale ero approdato dopo un lungo periodo di infatuazione per Roger Martin du Gard.
Ma i due barman dello Zelda hanno vinto tutto quello che c’era da vincere riguardo a competizioni per il bere miscelato. Ora sono assistiti da un paio di mani più giovani e veloci. È un ragazzo con gli occhiali dalla spessa montatura grigio tigrato, che ha ereditato la loro raffinatezza, rendendola più attuale con un diverso modo di vestirsi: niente camicia azzurrina con maniche rimboccate, ma una T-shirt nera con scritte poco appariscenti.
Ordino uno scotch sour. Guardo le bottiglie allineate dietro il banco. Quasi stento a ricordarmi che lì avevo incontrato Sabrina, capelli bruni e occhi verdi, e che era stata lei ad avvicinarmi, perché io, per una forma di timidezza o di orgoglio, di rado sono stato il primo a fare delle avances. Forse ero fin troppo memore di quella volta che per conquistare Isabella ebbi l’idea peregrina di regalarle dei libri che avevano nel titolo il suo nome: da Boccaccio a Gide. Quando aprì il pacco ben infiocchettato, mi guardò come si guarda un demente.
Alzo il bicchiere e prima di sorseggiare lascio che l’odore aspro del succo di limone mi pervada le narici.
Venti anni fa, da ogni parte, gli industriali venivano qui a farsi il drink della sera. L’epoca d’oro, insomma. Poi c’era un vuoto di un’ora, e poi arrivavano le coppiette. Nessuna brillantezza estetica, ma... la gente arrivava, ecco. Entravano con addosso qualcosa di simile a una gioia arrogante. Oggi, invece, tutto si è lievemente impolverato, si sente un passato che è dolce respirare, e sebbene la crisi non abbia ridotto granché la folla all’ora dell’aperitivo, si percepisce che l’illusione è finita.
Al banco, stasera, in mezzo a una fauna dal vocabolario radical chic - «Questa crisi, più che i soldi, ci ha rubato il futuro...» -, tra facce abbronzate con la lampada e occhiali affumicati, c’è una ragazza dai capelli neri à la garçonne, il viso bianco: giocherella con un braccialetto di ciondoli, qualcosa di etnico comprato in una vacanza lontana, chissà; e chissà che tipo di vacanza. Un gesto cinematografico, comunque, che appare e scompare tra i bicchieri e le mani degli avventori che prendono chips e noccioline, e per un attimo – ecco – per un attimo ho avuto questo fotogramma.
Oggi stare allo Zelda, in fondo, è aspettare uno di questi momenti. Un istante che ti ricorda il mondo quant’è largo – dalla California a Shanghai. Una specie di madeleine proustiana inzuppata nell’alcol. E quasi, guardando quei gesti – una mano che giocherella con un gioiello che forse un tempo fu un pegno d’amore – t’intenerisci eccessivamente; la malinconia ti fa un buffetto e ti ripete che non bisogna credere a tutto, ma ti sussurra che, a volte, – una canzone degli Spain, un capello non tuo trovato su un maglione, un Martini davvero extra secco – nell’anima può comparire qualcosa che somiglia al desiderio di essere amati, ed è la sensazione che stavo provando quella sera.
Una sensazione strana che ha a che fare con la stima, con la discrezione; e ha una vena caritatevole, almeno io la vedo così: «Posso stare con te un poco, dal momento che mi arricchisci?». Intendevo ciò, con l’insolito e neotestamentario aggettivo «caritatevole». Ma forse sono ubriaco...


Be’, ecco come a causa di un allagamento, o di una frana, non l’ho mai saputo, una sera mi sono trovato di nuovo allo Zelda, e ho alzato il bicchiere pieno di riflessi ruggine-dorati dicendo, non so a chi: «Alla tua!».

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