Il ragazzaccio (del nord) che mette in piazza i vizi della Roma snob

È la piccola bellezza, quella descritta da Michele Masneri nel suo romanzo di esordio, Addio, Monti (minimumfax). La città è sempre Roma ma la misura è diversa: non la grande bellezza di Paolo Sorrentino, con i vecchi e orridi esponenti del culturame appollaiati come avvoltoi su splendide e vaste terrazze, bensì quella minore del sottoculturame, ceto più giovane e più povero che trascina le proprie serate sui terrazzini di Monti, rione che dài e dài è riuscito a diventare di moda ma non certo ad aumentare la metratura delle proprie abitazioni, pochi metri quadri perché era zona meschina, anzi malfamata, da alcune migliaia di anni. «Le cagne della Suburra abbaiano al vecchio puttaniere» scrive Orazio, e la Suburra era precisamente ciò che oggi si chiama via Madonna dei Monti, via dei Serpenti, via Leonina, via Urbana.
Sempre lavorando coi diminutivi, Addio, Monti potrebbe utilmente intitolarsi «Fratellini d'Italia», e non mi riferisco al piccolo partito di La Russa e Meloni ma al capolavoro di Alberto Arbasino del 1963, appunto Fratelli d'Italia. Che era un libro più grosso e più ambizioso, però con ambienti analoghi e scritto uguale: la somiglianza dello stile è impressionante, ci sono pagine che si salvano dall'effetto copia-incolla solo perché Masneri è un ragazzo aggiornato e nelle frasi inserisce le marche del momento. Anche il titolo, ovviamente dai Promessi sposi, sembra mimare il citazionismo arbasiniano ed ecco che quasi senza accorgermene ho messo in fila tre lombardi: Manzoni (Milano 1785), Arbasino (Voghera 1930), Masneri (Brescia 1972). Valore diseguale, chiaro, ma stessa linea espressiva ed espressionistica. Nel libro viene citato anche Gadda (Milano 1893) che, come Arbasino e Masneri, lasciò a suo tempo la Lombardia per Roma.
Io questa epidemia di inurbati faccio fatica a capirla. Un tempo magari si scendeva nella capitale per i soldi della Rai o del cinema, ma adesso che non c'è più trippa per gatti non sarebbe più bello, e meno servile, starsene a casa propria? Magari cercando di dare a Brescia quel romanzo che Torino ha avuto da Culicchia, Padova da Bùgaro, Mestre da Franzoso, Parma da Nori, Bologna da Brizzi, Firenze da Santoni, Prato da Nesi... Masneri ha la stessa malattia dei suoi personaggi: «È uno di questi forsennati che ormai o sampietrino o morte. Mai tornerebbero nelle loro BS e BG». Che la romanite lo abbia ormai aggredito nei gangli vitali l'ho capito quando ho letto dei fuorisede «scappati dalle loro città lombarde, terrorizzati dalla consapevolezza che assuefatti a tutta questa meraviglia romana mai si potrà tornare un giorno ad abitare in città con le loro classi sociali precise e i loro snobismi e confini precisi anche di quartiere». Come se l'Urbe non fosse spietatamente divisa in Roma Nord e Roma Sud, in centro e borgate, mondi fra loro incompatibili e impermeabili.
Anche la sodomia rimanda a Fratelli d'Italia però Masneri, ringraziando il Cielo, così come Arbasino non scende nei dettagli e quindi perfino un omofobo par mio può arrivare in fondo al libro senza soverchio fastidio. I maschi masneriani hanno inoltre due attenuanti: 1) la bisessualità; 2) l'antierotismo delle loro donne. Tutte più o meno vegetariane se non addirittura vegane, animalare ossia cagnare, fanatiche della raccolta differenziata, redattrici editoriali che pensano di fare cultura correggendo testi altrui, risultano eccitanti come un articolo di Eugenio Scalfari. Il loro peccato più grave non è leggere Repubblica, Micromega, Limes, Nuovi Argomenti, che pure, il loro peccato più grave è l'ossessione della purezza. Sono sempre alla ricerca di ristoranti biologici, uova biologiche, merlot biologici, formaggini di tofu biologici, pasta al kamut biologica, e hamburger senza carne, sempre biologici, ed è ovvio che non facciano figli perché alla base di questa mania del bio non c'è, come potrebbe sembrare, un interesse per la vita, bensì un fastidio per la medesima, che è sporca, incontrollabile, e non succede al Maxxi né ai book party. Il loro manicheismo non è più quello direttamente politico, comunista o post-comunista o ex-comunista e quindi sempre comunista, degli abitanti delle terrazze di Sorrentino, ma è religioso nel senso delle sette dualiste medievali, albigesi eccetera: non a caso una di queste disgraziate viene descritta come una «convertita dallo stage a Slow Food».
Sono di sinistra queste donne e i loro uomini? Certamente non votano a destra, e vanno ai convegni di Toni Negri (se ne organizzano ancora? Possibile?), e se lassù al Nord è morta la vecchia zia lasciando un po' di buoni postali ecco che si possono permettere il «quadro gigante di questo pittore romano molto in ascesa che dipinge scene di guerriglia urbana anni Settanta».

Ma chiamarli radical-chic, come si legge nel risvolto, è sopravvalutarli tanto: la parola nacque a New York a casa di Leonard Bernstein che politicamente era un cretino ma qualcosa in campo artistico aveva combinato, mentre gli snobbini raccontati da Masneri sono solo intellettuali del kamut.

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