Controcultura

Renzo De Felice ha battuto sul campo l'egemonia di sinistra

La sua battaglia contro le letture ideologiche del passato ha segnato in profondità l'Italia. I suoi studi sono una pietra miliare

Renzo De Felice ha battuto sul campo l'egemonia di sinistra

A vent'anni dalla prematura scomparsa di Renzo De Felice, il 25 maggio 1996, il lascito dello storico che ha legato il suo nome al rinnovamento degli studi sul fascismo è ancora attuale. La sua battaglia per liberare la ricerca storica dai condizionamenti ideologici ha prodotto frutti e ha inciso in profondità sul tessuto della società civile anche se, periodicamente, ricompaiono vecchie e logore tesi che, soprattutto su certi argomenti, sono il frutto della pertinace volontà di utilizzare la storia per fini di natura politica.

Quando, verso la metà degli anni Sessanta del secolo scorso, De Felice, dopo essersi a lungo occupato delle vicende dell'Italia napoleonica e giacobina, decise di studiare la figura di Benito Mussolini e il regime fascista, la situazione della storiografia tanto italiana quanto internazionale sull'argomento era ancora largamente condizionata dalla passione politica. Erano trascorsi venti anni o giù di lì dalla conclusione del secondo conflitto mondiale, ma la cultura politica del Paese e quindi anche, in particolare, la ricerca storiografica era tributaria dell'egemonia radical-marxista che aveva imposto quella che lo studioso, in seguito, avrebbe definito icasticamente una «vulgata», cioè a dire una lettura ufficiale della storia d'Italia in funzione legittimante della repubblica «democratica e antifascista». In questo quadro il fascismo era visto come un «blocco unitario» che, per i liberali, testimoniava della «malattia morale» che aveva colpito l'Europa e, in particolare, l'Italia all'inizio del secolo, mentre, per i marxisti, rappresentava una specie di «controrivoluzione preventiva» innescata dalle forze reazionarie mobilitate contro il pericolo della rivoluzione. Non mancava, poi, chi lo interpretava, con un approccio denigratorio di tutta la storia nazionale, come il punto di arrivo dei difetti, dei vizi, delle tare che si erano stratificatI sulla storia di un Paese che, per dirlo con Piero Gobetti, non aveva conosciuto la forza rigeneratrice della Riforma protestante.

A Renzo De Felice, che si era formato alla scuola di Delio Cantimori e di Federico Chabod, tutti questi discorsi interpretativi non potevano che apparire astratti e inadatti a penetrare nel fondo di un fenomeno storico complesso e irriducibile a unità. Del resto, per una personalità come la sua, al fondo profondamente liberale una personalità che era stata vaccinata contro le tossine ideologiche del marxismo proprio da un brevissimo periodo di impegno politico nelle file del Pci le spiegazioni dei fatti storici in chiave politica, e soprattutto in chiave di legittimazione del potere, erano, oltre che fuorvianti, anche eticamente scorrette. Verso la conclusione dei suoi studi sul fascismo, alla vigilia della sua scomparsa, De Felice illustrò il meccanismo attraverso il quale la «vulgata», che aveva il proprio punto di forza nell'idea della «unità della Resistenza» a guida comunista, divenne il principio legittimante della «repubblica antifascista» e sanzionò, di fatto, una egemonia culturale radical-marxista. Al di là del progetto politico, e delle sue conseguenze sulla società italiana, questa «vulgata» era falsa, sia perché tendeva a negare o sottovalutare il rilevante contributo alla lotta contro il fascismo da parte di forze non comuniste, sia perché presupponeva che il fascismo fosse una realtà unitaria, un blocco compatto, quasi un Moloch reazionario, privo di cultura e nemico della cultura, amante della violenza per la violenza. Non è un caso che De Felice, in una celebre intervista rilasciata a un quotidiano e destinata inevitabilmente a suscitare un'ondata di polemiche, abbia sottolineato l'opportunità di togliere dalla carta costituzionale le norme, ormai desuete, che riguardavano il fascismo e il carattere antifascista della Costituzione. Era un modo sia per riaffermare la necessità di una separazione fra storia e politica sia per ribadire la convinzione che, morto e sepolto il fascismo come evento storico, i valori della libertà e della democrazia erano ormai entrati a far parte del patrimonio culturale della popolazione. Era, ancora, un modo per richiamare l'attenzione sul fatto che la legittimazione del potere non può, né deve, essere costruita attraverso l'uso strumentale e politico della storia.

Negli anni durante i quali si occupò del fascismo un trentennio circa De Felice smontò, poco alla volta e pezzo per pezzo, l'impostazione storiografica della «vulgata». Inserì il fascismo nel quadro della profonda trasformazione della società italiana prodotta dalla guerra mondiale e lo presentò come un movimento presto diventato punto di attrazione e di riferimento dei ceti medi emergenti alla ricerca di una rappresentanza politica che fosse equivalente al loro peso nella vita politica e sociale del Paese. Analizzò la composizione dei fasci di combattimento, prima, e del Pnf, poi, studiò le biografie dei suoi esponenti, ne sviscerò idee e programmi facendo vedere come il fascismo, sin dalle origini, avesse diverse, e talora contraddittorie, anime. Vi confluirono, infatti, in una sintesi singolare che non avrebbe potuto esistere senza la Grande Guerra, uomini provenienti dall'interventismo rivoluzionario e dall'interventismo nazionalista, di sinistra e di destra per così dire, che si ritrovarono insieme nella difesa e nella rivendicazione dei sacrifici compiuti in guerra. Altro che movimento unitario!

Passando, poi, allo studio della storia del regime, quale andò costruendosi e realizzandosi gradualmente dopo la svolta autoritaria seguita al delitto Matteotti, De Felice tratteggiò il conflitto latente tra le varie anime del fascismo, ricostruì in dettaglio il dibattito teorico che accompagnò le principali scelte legislative in campo istituzionale, ripercorse le vicende della politica estera italiana nel gioco delle grandi potenze del tempo, individuò e descrisse i meccanismi di costruzione del consenso che toccò il suo apice durante la prima metà degli anni Trenta. E, dopo, raccontò la crisi del regime e la guerra civile. Il tutto, sempre, con estremo equilibrio e senza indulgere alle passioni politiche.

Man mano che uscivano i volumi della biografia di Mussolini (che, in realtà, era una vera e propria storia del fascismo) e le numerose ricerche collaterali, molti luoghi comuni accreditati sia dalla politica sia da una storiografia succube della «ragion politica» crollarono, tra moti di protesta e di indignazione, come castelli di carta. E, oggi, anche molti dei suoi avversari del tempo sono stati costretti a rivedere le loro posizioni e a considerare, comunque, l'opera storiografica di Renzo De Felice come un punto d'arrivo della ricerca storica.

La lezione di De Felice è, prima di tutto, metodologica. Uno degli ultimi, se non proprio l'ultimo, esponente della grande tradizione storiografica italiana che coniuga lo «storicismo» di stampo idealistico con il «realismo storiografico», De Felice si è preoccupato di «capire» il fascismo senza, naturalmente, simpatizzare con esso: lo ha fatto studiandolo, per così dire, anche «dall'interno» attraverso l'analisi dei documenti, pur ufficiali, e la memorialistica. La sua finalità era, insomma, quella di comprendere e spiegare il fascismo e la sua natura ricostruendone le fasi e la storia complessiva.

La sensibilità storiografica di De Felice lo portò a fare tesoro degli stimoli provenienti anche dalla grande letteratura internazionale, sia storica che sociologica e filosofica: dagli studi di Gino Germani sulla mobilitazione sociale a quelli di Juan J. Linz sull'autoritarismo e sul totalitarismo, dalle osservazioni di Augusto Del Noce sul carattere filosofico della storia contemporanea ai lavori di George L. Mosse sulla «nazionalizzazione delle masse» e sull'importanza della storia culturale fino alle grandi opere di François Furet sulle metamorfosi dell'illusione rivoluzionaria e via dicendo.

Il tutto, naturalmente, nella convinzione che il compito dello storico sia quello non di servire una qualunque ideologia politica, ma di raccontare come i fatti si sono realmente svolti.

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