Il romanzo come Wikileaks Dispacci sulla fine del Duce

Il romanzo come Wikileaks Dispacci sulla fine del Duce

Il carcere è il Great Meadows, New Jersey. La voce che sta parlando appartiene a Salvatore Lucania, conosciuto in America come Charles Luciano, detto Lucky «perché ottiene con facilità tutto quel che vuole». È il 23 giugno del 1943, un mercoledì. C’è un avvocaticchio arrivato dalla Sicilia con il benestare del governo di Franklin Delano Roosevelt. La sua presenza qui ha a che fare con l’operazione Husky. Lo sbarco sull’isola, per capirsi. Lucky lo ascolta, tutto è a posto, lo guarda andare via e poi si rivolge al secondino, sottovoce. «È bravo questo avvocaticchio, questo... come si chiama?». «Sindona, Eccellenza».
Immaginate. Siamo nel 1943, giugno e poi luglio e sullo scacchiere della storia si gioca una di quelle partite che finiscono per definire il futuro. Non è solo il momento di svolta di questa guerra globale che fa assomigliare il mondo a un tavolo da Risiko. C’è Hitler che temporeggia nel portare l’assalto definitivo all’oriente sovietico, prima che arrivi l’inverno. Roosevelt scrive a Pio XII, Stalin scrive a Churchill, Churchill risponde e informa Roosevelt, Roosevelt riscrive a Stalin e nessuno di loro in questo scambio di lettere si fida dell’altro. A Roma c’è un uomo solo che ha perso il senso della realtà. Tutta la gente che ha intorno continua a mentire e s’ingegna per farlo fuori. Quando il 24 luglio Mussolini si ritrova davanti i suoi gerarchi con l’ordine del giorno che lo rovina è troppo tardi. Ci sono treni piombati dove gli ebrei viaggiano verso la morte. A San Lorenzo cadono le bombe.
Immaginate se tutto questo fosse stato raccontato e svelato in tempo reale da un sito come WikiLeaks, con dispacci, informative, veline, pagine di diario, conversazioni rubate qua e là, lettere personali, messaggi cifrati, documenti con il massimo grado di segretezza. Tutto vero, tutto imbarazzante, tutto messo lì su un tavolo come un grande puzzle dove ogni frammento diventa il pezzo di una storia disumana. Il risultato è un romanzo straordinario.
Questo romanzo adesso ha un titolo, Io sono la guerra (Rizzoli, pagg. 524, euro 22). L’autore è un esordiente. Non un giovane esordiente. Adelchi Battista ha più di quarant’anni e nella sua vita ha fatto jazz, creato format radiofonici, magari avete ascoltato alcuni dei suoi testi con la voce di Diego Cugia, alias Jack Folla, direttamente da quel non luogo chiamato Alcatraz. Tutto questo però non conta ed è avvenuto prima che «impazzisse». Adelchi Battista ha passato anni a leggere, raccogliere, ritagliare, catalogare qualsiasi cosa sia stata scritta o rivelata in tutti i luoghi del mondo che avesse a che fare con il 1943. I suoi hard disk sono organizzati come quelli di Julian Assange, solo che non sono una bomba pronta a far esplodere il presente, ma un archivio monografico su un solo anno. Cose come queste. «Un ombrellone, un tavolino, una brocca di acqua con ghiaccio e limone. Sulla terrazza del Quirinale il duca Pietro d’Acquarone e Vittorio Emanuele III, con in mano un binocolo della marina Zeiss, osservano il bombardamento alleato sul San Lorenzo. “Ma tu guarda come mantengono la formazione! Sembra di assistere a una parata. E nemmeno un caccia dei nostri. Dove saranno finiti?“».
Io sono la guerra ha la stessa cura per il frammento storico dei romanzi di Javier Cercas. Pensate al colpo si Stato spagnolo del 23 febbraio 1981 raccontato in Anatomia di un istante (Guanda). All’inizio ti sembra di non capire dove porta questa narrazione a mosaico. Per un attimo sei quasi tentato di perderti. Poi la parte comincia a farsi tutto. È lì che il romanzo rivela la sua forza. I frammenti che Adelchi Battista porta sulla pagina sono una narrazione cinica, sono i pezzi dei documenti che ha raccolto, non serve fantasia, è già tutto lì, già scritto, sono le versioni di chi c’era, dei testimoni e dei protagonisti, nulla è drammatizzato, ma esce dalla storia come se davvero la storia fosse sempre storia contemporanea. Ma questa volta non è lo storico che interpreta, ma il lettore. La linea che porta alla seduta del Gran Consiglio è cruda, spietata e ti rendi conto che la sorte di Mussolini diventa pezzo dopo pezzo inevitabile. Quel giugno-luglio del ’43 è l’incrocio di storie che segnano il futuro del resto del Novecento.
Mussolini è alla caserma Podgora di Trastevere.

«“Il Duce chiede se può usare il telefono”. A queste parole un carabiniere entra nella stanza, tira fuori un temperino e recide d’un colpo il cavo del telefono. Mussolini lo guarda incredulo, ancora convinto che siano misure precauzionali. Appena eccessive».

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