Per uno scrittore, scrivere poco è una contraddizione in termini. Ma scrivere poco su di sé è un’ottima controindicazione al proprio Ego. Di cui gli intellettuali notoriamente abbondano.
Gli scrittori in realtà adorano scriversi addosso, in particolare raccontarsi e raccontando al proprio lettore vita, opere e capolavori. E di solito, curiosamente, in maniera inversamente proporzionale al talento. Quelli che valgono di meno, sono quelli che scrivono di più. Certo, poi c’è anche il passare del tempo che cambia il carattere. Per dire: Aldo Busi, oggi sovrabbondante quando parla di sé e della propria opera, vent’anni fa sintetizzò se stesso in quattro righe, in terza persona: «C’è stato e ha scritto quanto segue», mettendoci i sei titoli pubblicati dal 1984 all’89.
Purtroppo il chi, in letteratura, tende ormai a sopraffare il cosa. Le biografie composte dagli scrittori per i propri siti internet sono in genere più ampie dei contributi ospitati sulle pagine web. E quelle per le quarte di copertina dei libri capita siano più lunghe della nota critica...
Scrivere bene è un talento. Scrivere poco è un’arte. Ma è possibile scrivere bene, di sé, in breve?
Oggi, in tempi di prolissità esistenziale è difficile, ma qualcuno in passato c’è riuscito. Le edizioni Henry Beyle hanno appena pubblicato in un piccolo volume la (breve) nota biografica che Elio Vittorini consegnò al numero del marzo 1949 di Pesci rossi, il bollettino di informazione e attualità letteraria che, all’epoca, pubblicava la Bompiani. In una decina di cartelle, intitolate Della mia vita fino a oggi, Vittorini, che aveva 40 anni e di cose ne aveva già fatte parecchie, racconta tutto se stesso: dalla Siracusa «città di marinai e contadini» dove era nato nel 1909, ai primi libri che gli fecero «grande impressione», Robinson Crusoe e Le mille e una notte, dai suoi complicati rapporti con il fascismo all’esperienza del Politecnico («ho deciso di non dirigere mai più riviste») fino ai suoi gusti letterari («considero Hemingway più importante, almeno per i comuni mortali, di Joyce, di Proust, di Kafka»). In poche battute, tutta una vita e qualcosa di più.
Definire se stessi e il proprio lavoro evitando enfasi declamatoria ed eccessi solipsistici (senza dire dell’autocelebrazione) è la sfida più difficile per uno scrittore. Coloro che ne sono usciti vincitori - puliti e coincisi - sono pochi, come testimoniano due vecchie antologie di autobiografie d’autore che siamo andati a sfogliare per l’occasione: l’Autodizionario degli scrittori italiani, confezionato da Felice Piemontese per Leonardo nel 1989, e i Ritratti su misura curati da Elio Filippo Accrocca per il Sodalizio del libro nel 1960. È qui che si vedono i veri maestri della «necessarietà», contro la logorrea della letteratura moderna. Giuseppe Prezzolini dice quello che c’è da dire in una paginetta, dove può permettersi di confessare: «Autodidatta. Diventò capitano senza aver fatto il soldato, professore d’università senza diplomi scolastici, capo di un ufficio della Società delle Nazioni senza concorso, e fa il giornalista italiano da New York pur essendo cittadino americano». Leonardo Sciascia ci impiega ancora meno, mezza pagina - che è un miniromanzo - che ruota attorno all’inciso: «Non amo frequentare i salotti e i caffè letterari: le riunioni di persone intelligenti mi pare producano, non so perché, astrale cretineria. Pertanto preferisco il circolo del mio paese». Mario Tobino si sbriga in 15 capoversi, quasi tutti di una riga, una riga e mezza, tra le quali ne spiccano due: «Premi in Italia non ne ho mai avuti» e «Non ho da dare altre notizie».
A differenza di Attilio Bertolucci il quale, in ossequio alla concinnitas, impiega due pagine fitte fitte per confrontarsi con la propria realtà, Giuseppe Ungaretti, nel 1960, condensò quasi 80 anni di vita in 9 righe, così come compendiava un mondo in pochi versi. Aldo Palazzeschi ci impiega ancor ameno: 4 righe e mezza, dove le cose che gli preme si sappiano di sé sono che il nome Palazzeschi è uno pseudonimo, e che quello del suo primo editore, Cesare Blanc, è lo stesso del suo gatto.
Per il resto, è curioso notare l’influenza dell’area geografica sull’espressione artistica. Sarà un caso, ma i veneti sono maestri dell’essenzialità.
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