Diana Vreeland non era una bellezza, ma era venuta al mondo in un’epoca, il primo Novecento, in cui la perfezione delle forme, nell’arte come nella vita, andava scomponendosi, e in un ambiente, quello aristocratico-bohémien, dove l’allure, la sprezzatura e l’anticonformismo venivano respirati sin dall’infanzia. Madre americana, padre scozzese, Diana era nata a Parigi nel 1903 e prima che scoppiasse la Grande guerra aveva già attraversato l’Oceano sui transatlantici di lusso, visitato le più importanti capitali europee, vissuto a New York, intravisto nel salotto di casa sua Diaghilev e Nizinskij, assistito a corte all’incoronazione di Giorgio V a re d’Inghilterra... Ventenne e sposata, era andata ad abitare a Londra con il marito: fra i suoi amici c’erano il commediografo Noel Coward, il fotografo-esteta Cecil Beaton, lo scrittore Evelyn Waugh, la giornalista pettegola Elsa Maxwell, probabilmente il più perfetto concentrato dello snobismo, della maldicenza e dell’ironia che si potesse trovare oltremanica. Per ammazzare il tempo, aveva aperto una boutique di lingerie: vestiva e vendeva la moda francese e quando nel 1936 rientrò negli Stati Uniti, una sua apparizione a un ballo al Saint Regis Hotel, abito bianco merlettato di Chanel, bolero e rose rosse nei capelli, le valse un posto di redattrice di moda a Harper’s Bazaar. Cominciò con una rubrica di consigli eccentrici, stravaganti, spesso irritanti: trasformare un vecchio soprabito di ermellino in vestaglia, lavare i capelli biondi del proprio figlio con lo champagne avanzato di un party, usare la livrea degli autisti come cappotto per il dopo sci... Nel giro di pochi anni si ritrovò direttore.
Il giornalismo di moda contemporaneo - le Wintour come le Sozzani, le Borioli come le Giussani e le Suzy Menkes - deve tutto alla Vreeland. Gli deve anche il birignao, lo scollamento con la realtà, il futile che diventa essenziale, la sfilata come evento, il fashion system e le fashion victims. Mezzo secolo prima di Il diavolo veste Prada, Cenerentola a Parigi aveva già fatto della Vreeland l’archetipo cinematografico della direttrice gelida e collerica, tirannica e inarrivabile. «Ho chiesto un verde tavolo da biliardo». «Ma questo è un tavolo da biliardo». «Mio caro, intendevo l’idea del verde tavolo da biliardo, non un tavolo da biliardo reale». Da Harper’s Bazaar a Vogue, dal secondo dopoguerra sino agli anni Settanta Diana Vreeland trasformò la moda in rappresentazione. Rivoluzionò il modo di impaginarla, ne fece una sorta di racconto dove le modelle, i fotografi e le location avevano pari dignità dell’abito da loro chiamati a illustrare. Le prime si chiamavano Twiggy, Veruscka, Marisa Berenson... Nel 1967, quando a Berkeley gli studenti facevano a botte con i poliziotti e anticipavano negli Stati Uniti quella che in Europa sarebbe stata la contestazione sessantottina, Diana Vreeland manderà Richard Avedon in Giappone per fotografare, sulle sue montagne innevate, una cappa di cashmere bianco per Vogue.
L’eccesso, il lusso, l’eccentricità furono alcune delle costanti della Vreeland, spesso e volentieri sconfinando coscientemente nella volgarità: «Un pizzico di cattivo gusto è salutare. È alla mancanza di gusto che sono contraria». Distingueva fra la moda «che è una cosa transitoria», e l’eleganza «che è una cosa innata e non ha niente a che fare con la bellezza dei vestiti». Fece di Irene Brin la corrispondente italiana di Harper’s Bazaar dopo averla incrociata per caso in Park Avenue, a New York. La Brin aveva un tailleur di Fabiani e un cappello di Fath, lo stile allo stato puro.
L’eccesso, il lusso, l’eccentricità alla fine le si rivoltarono contro. Nel 1971 un numero di Vogue costava al suo editore uno sproposito, ma gli utili non superavano più le spese e il dress code veniva sempre più dalla strada... Dall’oggi al domani, la Vreeland si ritrovò licenziata. Aveva 68 anni. Ne visse ancora altri 17 e si reinventò come curatrice di mostre del Metropolitan Museum of Art di New York. Ne ideò 15, una all’anno quasi, alcune rimaste leggendarie: quella su Diaghilev e i Balletti russi, quella sulla Cina imperiale, sulla Belle Epoque, su Yves Saint Laurent... Non c’era in esse alcun rigore scientifico né intento didattico: erano, anche qui, rappresentazioni, ossessioni, racconti visivi legati dall’iperbole e dal gusto di stupire.
Innamorata dell’Italia e di Venezia, «niente è più meraviglioso che starsene seduti a un tavolino mentre il crepuscolo cala su Piazza San Marco, ospite di sei cavalli in bronzo dorato che si impennano verso il paradiso», Palazzo Fortuny le dedica ora questa mostra, «Diana Vreeland after Diana Vreeland» (sino al 25 giugno, curatori Judith Clark e Maria Luisa Frisa, catalogo Marsilio) che francamente lascia il visitatore deluso: del personaggio c’è poco, le piccole bacheche con dentro i giornali che diresse non danno l’idea di che cosa quegli stessi giornali furono, il tentativo di offrire una sintesi delle mostre da lei curate si spegne fra la poca informazione e l’assenza di un criterio distintivo di qualsiasi genere, tematico, cronologico, eccetera.
La mostra: «Diana Vreeland after Diana Vreeland», Museo Fortuny, San Marco 3958, Venezia. Fino al 25 giugno. Per info:http://fortuny.visitmuve.it/
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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