La stanza dei veleni

La (vera) satira di Fratini, un Marziale a Roma.

N el 1994, qui al Giornale c'erano ancora i fax (oltre le macchine per scrivere e, pensa un po', la posta pneumatica per l'invio in tipografia). Intorno alle undici di ogni giovedì mattina, da quello della redazione-cultura cominciava un'eruzione di cartelle che spesso si trasformava in un'unica strisciata in stile lenzuolo. Erano cartelle spurie e sempre ricoperte di una scrittura a pennarello che andava a correggere, quando non la sostituiva completamente, quella dattiloscritta, con tanto di frecce, croci, asterischi, doppie graffe, a indicare le successive correzioni. Sempre eruttando, la striscia finiva per toccare terra e adagiarsi esausta.
Nella redazione-cultura avevamo un fattorino addetto alle incombenze tecnico-burocratiche, la posta, i giornali, la carta, la cancelleria, la fotocopiatrice... Si chiamava Quintini, era bravissimo e silenziosissimo, per via delle babbucce di feltro che, causa i suoi piedi delicati, usava sul lavoro. Nei tempi morti si interessava di Borsa e così leggeva con attenzione il Sole24ore della mia mazzetta, altrimenti destinato a rimanere intonso. Dall'angolo della sua postazione, una sedia, Quintini verificava che la trasmissione fosse andata a buon fine, raccoglieva da terra il serpentone che si era materializzato e rispettosamente me lo depositava sulla scrivania. «Dottore, anche oggi e senza casini, è arrivato Gaio Fratini», mi diceva, e anche questo in fondo è un epigramma involontario, o presqu' automatique, e quelli erano ancora tempi in cui fare il giornalista era divertente...
Gaio Fratini, un nome di battesimo che dava già l'idea di un Marziale del XX secolo, un Marziale a Roma, parafrasando Flaiano, era venuto un pomeriggio al Giornale per fare la mia conoscenza, propedeutica, mi aveva detto al telefono, alla sua collaborazione. Dietro sua richiesta, me lo aveva caldeggiato da Roma Carlo Laurenzi, firma del Giornale di Montanelli che aveva deciso di restare nel Giornale di Feltri. E da Milano era successo lo stesso con Giampaolo Martelli, idem come sopra per il resto. Chi fosse Fratini lo sapevo benissimo, perché già da ragazzo, erano gli anni Settanta, mi andavo a comprare alla libreria Sforzini di Roma Il caffè, la rivista di Giovan Battista Vicari, «il Pound dei sospiri», per la sua passione per l'autore dei Cantos, di cui Fratini, alias Jago della Pieve, era la rissosa guardia del corpo letteraria.
Quando lo conobbi di persona, Fratini aveva settantatré anni, qualcuno di più di quelli che io ho oggi, e mi sembrava vecchissimo. Brevilineo, calvo, la testa grossa, un paio di spesse basette, occhiali scuri a riparare una vista sempre più incerta, una voce baritonale, quel giorno si era seduto davanti alla mia scrivania, aveva dato uno sguardo intorno e senza vedere nulla aveva capito tutto. «Siete poveri», mi aveva detto. «Ma belli» avevo risposto. «Che cos'è una gag anni Cinquanta?», si era insospettito. «Io negli anni Cinquanta ci sono nato» avevo spiegato. «E io ci sono morto» aveva chiuso. Il passaggio successivo era stato: «Sì, accetto di collaborare, ma ti avverto, costo caro». «Ti coprirò dell'oro che non ho», gli avevo detto ridendo e aveva riso anche lui, un riso da ragazzo.
Fratini era povero, «come lo sono i poeti» era solito precisare. Per tutta la vita aveva cercato un ente pubblico che gli desse uno stipendio fisso senza farlo lavorare, nel senso che, in mancanza di un Mecenate privato, i poeti, diceva, dovevano essere a carico dello Stato, un vanto, non un onere. Essendo suscettibile di natura, naturalmente non l'aveva mai trovato e va da sé che se da qualche parte fosse stato assunto, si sarebbe licenziato il giorno dopo. Essendo inoltre orgoglioso, ed essendo conscio del suo valore, quando chiedeva aiuto era nella convinzione che ti stesse facendo un favore. Era in questa logica che va letta la visita di quel giorno, in vista di una collaborazione da lui cercata e di cui aveva bisogno, ma che di fatto lui mi concedeva. Per tutto il tempo che durò, fu bellissima e non litigammo mai, cosa rara con uno come lui. Una volta, non so come, la sua rubrica, La stanza dei veleni, uscì ripetuta, la stessa per due volte. «Mi hai tolto una settimana di vita», mi disse pacatamente al telefono. «Mi spiace, ma comunque resti sempre il più grande poeta morente», gli risposi cercando di fare lo spiritoso. «Non si scherza con l'anima di Cardarelli» mi fulminò.
In quella frase prima riportata, «Io negli anni Cinquanta ci sono morto», c'è tutto Fratini, nel senso che egli era un sopravvissuto, meglio, un reperto, di quell'epoca. La sua Roma era quella lì, la Roma dei caffè, delle riviste e delle redazioni delle riviste nei caffè, dei «Re della mezza porzione» nelle insegne dei ristoranti intorno a Piazza di Spagna e delle camere a pigione, di una città sgangherata, ma viva, di una cultura che ancora sapeva non prendersi troppo sul serio, dove Moravia era «l'Amaro Gambarotta», Maccari «il Supercortomaggiore», Mario Praz «il dandy cariato» e De Pisis «l'incantatore di sergenti»... Di quella Roma la rivista Il caffè, di cui Vicari, «il dandy di Ravenna», era l'anima e Fratini la sua coscienza, era il fiore all'occhiello: non aveva un editore, era di proprietà dei suoi autori e dei suoi lettori. Come spiegava Vicari «una rivista nasce da un gruppo, c'è una necessità prioritaria nell'essere poveri, ma liberi». Il suo scopo era «una scrittura come irrisione». Come riassumerà l'Alfonso Gatto dei Denigrammi: «Una luce passa gli anni e i mesi/ la gloria dei poeti. /Resta il premio, la luce dei fiammiferi svedesi». E qui la chiosa finale e immortale è proprio di Fratini. «Satira non è/ acrobazie di clown sotto gli occhi del re».
In quegli anni, e poi nei decenni che seguirono, Fratini fece tutto tranne che lavorare. Fece l'avvocato, e poi gettò la tonaca, anzi «la monaca», alle ortiche, fece lo sceneggiatore cinematografico e televisivo, il programmista Rai, l'attore e la comparsa, il prefatore, il curatore, il giornalista, financo il tennista. Fece tutto pur di poter fare l'unica cosa che gli interessava veramente, la satira che si eterna nel verso: «Tristan Tzara dispera, addenta una brioche. /Hans Arp ha le calosce. /Sono le sei di sera»...
Nel tempo cominciarono a morire gli amici e lui a restare sempre più solo. Ancora nel 1958, Flaiano gli aveva scritto: «Mandami di te buone nuove, /lavora, ama, dispera, spera, scrivi, sei giovane, /i miei auguri per il Cinquantanove». Quando morì, sarà Fratini a pregarlo: «Torna presto, ti prego. Caccia i mercanti dal tempio. Qui a Roma tutti ti sono stati amici, hanno cenato con te, viaggiato, fatto orge, calendari, scherzi d'aprile. Ferma, finché sei in tempo, quest'ignominia».
Non se ne andavano solo i testimoni, era tutto un clima e uno stile di vita che mutava, con infine una nuova «classe dei colti» saldamente incistata a sinistra fingendo che l'odiato potere stesse a destra. Alla fine degli Ottanta, a un Festival, a Fano, l'ennesimo, dove sul tema vita e morte della satira si esibivano i classici ospiti dei Fantastico televisivi di turno, Fratini riuscì a impadronirsi di un microfono e a piombare sul palco: «Siete voi i veri morti» disse. «Vi parlo a nome di Maccari, di Folon, di Steinberg. La vostra eterna vaghezza, il vostro turpe presenzialismo... È forse morto Calvino, e Queneau, Longanesi, Flaiano, Jarry? La prossima volta, interrogati sul Riso, su che cos'è questo maledetto Riso, non dimenticate il conte Giacomo che è un gentiluomo di Recanati in gita premio a Fano. Conosco a memoria un suo grazioso aneddoto sul riso: Grande tra gli uomini e di grande terrore è la potenza del riso. Chi ha coraggio di ridere è padrone del mondo, poco altrimenti di chi è preparato a morire».
Ho scritto prima «sopravvissuto» e «reperto» e non vorrei essere frainteso. Volevo anche dire che, come tutti i classici, Fratini andava oltre e restava al di là dei tempi, eternamente lancia in resta contro «una corporativa, sclerotica società letteraria che recidivamente si attarda a confondere l'Humour con la sagra delle matricole». E dunque. «Corsaro Nero o Giallo che sia /libera nos a mala poesia». E infine: «Giocai così male che ottenni /ingaggi ed encomi solenni. /Giocai così bene che persi /amici, terreni, sesterzi».
Fratini è morto proprio alla fine del secolo scorso. Quest'anno ricorre il centenario della nascita. Era umbro, di Città della Pieve, attuale residenza del presidente del Consiglio Mario Draghi. Non sarebbe disdicevole se il nostro Premier si attivasse per un riconoscimento-omaggio a un suo concittadino così illustre.

«Per fare un poeta ci vuole /un'ora, informa un fisico /austriaco: si mescola il tutto, /nel nulla si versa, /si aggiunge un po' d'acqua, /si cambia pianeta». Lui era rimasto nel suo. Un pianeta Gaio, il pianeta di Gaio.

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