Lo statalismo? È il regno degli stupidi

Lo statalismo? È il regno degli stupidi

«Ciò che è pubblico è, per abitudine, pigro, immutabile e contrasta ogni riforma. Un'altra sua caratteristica è l'eccessività dello spendere \ lo Stato impiega più funzionari di quanti sono necessari e stipendia alcuni di essi buoni a nulla». «I suoi salari crescono senza riguardo alcuno alla operosità con la quale una funzione viene eseguita; e continuano anche dopo che il lavoro è interamente cessato: lo statalismo è il regno degli stupidi». «Non esposte ad alcun elemento antisettico, come la libera concorrenza, non sottomesse, per esistere, a mantenersi in uno stato di vigorosa salute, l'opposto cioè delle organizzazioni private e senza sovvenzioni, tutte le aziende che nascono dalla legge cascano in uno stato inerte e ingrassano a dismisura, e da questo stato all'infermità la strada è breve».
Molti lettori potranno pensare che questi giudizi - e altri analoghi - riguardino l'attuale politica governativa vigente in Italia (ma anche altrove); appartengono invece, purtroppo, alla serie interminabile delle «prediche inutili» - per richiamarci a Luigi Einaudi - che da decenni faticano a trovare adeguato ascolto. Sono stati formulati infatti nel 1853 da Herbert Spencer e ora vengono ristampati in un aureo libretto a cura dell'editore Rubbettino: Troppa legislazione (pagg. 138, euro 9, con un saggio introduttivo di Enzo di Nuoscio e Stefano Murgia). Spencer, uno dei più grandi filosofi liberali dell'Ottocento, pensava che la società dovesse fondarsi su una libera cooperazione spontanea e sulla logica dei meccanismi auto-regolativi del mercato. Teorizzava - secondo una concezione evolutiva di progresso continuo - il confronto pacifico fra tutte le parti sociali, ponendo la centralità assoluta dell'azione individuale; un punto di vista che lo portava ad assumere una netta opposizione a qualsiasi ingerenza del governo nei confronti degli interessi e delle decisioni dei singoli cittadini. Di qui la sua dichiarata avversione alla over-legislation, ovvero a quell'assurdo accumulo di leggi, decreti e imposizioni di ogni genere e tipo che paralizzano l'iniziativa privata, aumentando oltre ogni misura il potere, già enorme, dello Stato e dei suoi innumerevoli e costosi apparati burocratici.
Nel denunciare la «troppa legislazione» Spencer individuava un problema fondamentale: il rapporto, sempre difficile e problematico, fra democrazia e liberalismo, che in questo caso si traduceva nel confronto fra la politica e l'economia. Come l'esperienza storica ha ampiamente dimostrato, la sovranità popolare non è, di per sé, garanzia di libertà.

Giustamente di Nuoscio e Murgia sottolineano che quella di Spencer si rivela «una durissima requisitoria contro la dilagante convinzione che vede nell'intervento del legislatore democraticamente eletto il rimedio ad ogni male sociale». Una convinzione, appunto, errata.

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