Nel 1974, Indro Montanelli chiese a Guido Piovene di lanciarsi nell’avventura de il Giornale. Temeva di ottenere un rifiuto. Rimase dunque sorpreso dall’assenso immediato dello scrittore, tra l’altro gravemente malato. Montanelli pensò che cercasse distrazione per evitare il dialogo con la morte ma dovette ricredersi. Piovene era una presenza costante nonostante camminasse con difficoltà. Credeva nel nuovo quotidiano e ne inventò la terza pagina, firmando articoli perfetti sul conformismo della cultura italiana (si potrebbero e dovrebbero ripubblicare: sono ancora attuali purtroppo). Quello stesso anno, nel corso di una cerimonia, Piovene pronunciò un discorso. C’era anche Montanelli. Lo scrittore disse: «Arrivati a una certa età, nell’imminenza della chiusura dei bilanci, ci si accorge che una sola cosa conta, e per quella sola vale la pena di vivere e di battersi: la verità. Io rimpiango di averlo capito così tardi». Commenterà Montanelli: «Ecco cos’era stato, per Piovene, questo giornale: l’occasione di un impegno civile nel nome della verità contro tutti i conformismi e i loro ricatti, al quale egli era stato fin allora piuttosto renitente. Non ne aveva bisogno. Le sue qualità di artista bastavano ad esentarlo da certe responsabilità. Volle assumersele. E morire, lui che lo aveva sempre evaso, “in servizio”».
Montanelli qui si riferisce soprattutto ai compromessi col fascismo di Piovene e alle connesse grandi polemiche esplose nel dopoguerra (alle quali lo scrittore rispose con il saggio Coda di paglia, 1962). Eppure Montanelli individua anche il tema dominante della narrativa di Piovene. Dire la verità, dunque. L’intero percorso di Piovene è un’esplorazione sempre più tragica del confine tra verità e menzogna. Categorie innanzi tutto interiori pronte a diventare metafore dell’ampio corso della Storia o a rispecchiarsi in esso. I romanzi gettano lo scandaglio nell’anima dei personaggi (e dell’autore) correndo il rischio di trovarci il nulla, al massimo «il rantolare dei sentimenti» (Guido Ceronetti). Piovene, anche quando mette in scena grandi passioni, ha un fondo gelido, come se perfino le dolci colline del Veneto, protagoniste non secondarie delle sue pagine, fossero «quinte teatrali e irreali» (Luca Doninelli) di una scenografia che nasconde un deserto ghiacciato. In Lettere di una novizia (1941) Piovene affronta il tema della dissimulazione onesta: l’autoinganno che ci concede di vivere meglio. L’autoinganno che diventa facilmente malafede.
Dopo quasi quindici anni di silenzio, torna alla narrativa con Le Furie (1963). L’autoinganno è diventato impossibile. Lo scrittore non crede più nell’artificio del romanzo. L’autobiografia si mescola con il saggio, la Storia con la finzione, il presente col passato, la prosa con la poesia. Fa sempre più freddo nelle pagine di Piovene. Nel Novecento si uccide senza odio: «Conoscevo già l’irruzione e la furia dell’insignificante, la speciale mancanza d’odio che non è un freno ma un incentivo a uccidere». Altrettanto grave è la «violenza subdola che è l’atonia quotidiana del cuore ». Siamo uomini di fumo in balia dei venti. Siamo senza anima. Le Furie vorrebbero fornircene una posticcia, fatta di ideologia o sentimentalismo, per trascinarci con loro nel gorgo. Le stelle fredde e il postumo Verità e menzogna vanno a comporre, con Le Furie, una trilogia degli uomini vuoti, privi di desiderio, in fondo già morti. Per il romanzo Le stelle fredde (1970), ora ristampato da Bompiani, parlare di trama pare superfluo. Eppure c’è. C’è un uomo in crisi che molla tutto e torna nella casa di campagna dove ha trascorso la giovinezza. C’è un ciliegio che ha messo le radici in un muro della antica villa: un simbolo di purezza e speranza. Verrà abbattuto... C’è uno scontro tra figlio e padre. Ci sono anche l’omicidio di un ex rivale geloso e un investigatore-filosofo. La parte centrale, il cuore pulsante, è occupata dal lungo resoconto sull’aldilà di un fantasma (in carne e ossa, però) d’eccezione: il risorto Dostoevskij. L’insieme del libro, come ha notato uno dei suoi più acuti lettori, Andrea Zanzotto, è più vicino alla poesia che alla narrativa. Vale anche per lo stile. Nella prosa sono incastrati versi «a mala pena mascherati » (Zanzotto): «Vivevo dentro un movimento di soli - lune - alberi - piogge esseri vivi e morti - eventi vicini e lontani - ma dalla loro parte; catalogavo tutto; ricuperavo tutto».
Oggi il nichilismo è una posa. Ne Le stelle fredde invece è un peso da portare stoicamente. Non c’è premio per questa fatica. Anche lo stoicismo ha qualcosa di tetro e disgustoso. Il disincanto è totale. Dopo la morte ci attende un’altra vita senza risposte in un altro mondo imperscrutabile. Le anime (anime?) sono impegnate in un viaggio misterioso sul quale si interrogano in continuazione. Proprio come noi. Alcune si dissolvono: sarà la vera morte o soltanto un ulteriore passaggio a un ulteriore aldilà? Non è dato sapere. A ogni pagina, risuona la domanda: qual è la verità? La verità di quel che siamo, dei nostri sentimenti, della storia privata, della Storia con la maiuscola, della vita e della morte? Le stelle fredde sembrano fissarci. In silenzio. Con l’ultimo romanzo, Verità e menzogna, il tema privilegiato finisce dritto nel titolo, a conferma di una lucidità ormai implacabile. Piovene è insopportabilmente crudele per i nostri anni in cui la sociologia e l’aneddoto autobiografico sono elevati a oggetto della narrativa.
Per questo, una volta celebrato nei due Meridiani introdotti da uno splendido saggio di Enzo Bettiza, è stato dimenticato. Ma ora c’è in libreria una occasione per rimediare e (ri)fare conoscenza con questo scrittore così diverso e necessario.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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