Storia d'assalto

Braccio teso e pistola alla tempia: la foto che cambiò la guerra in Vietnam

Una foto può cambiare una guerra? Vi raccontiamo la storia di uno scatto che ha cambiato il conflitto in Vietnam

Braccio teso e pistola alla tempia: la foto che cambiò la guerra in Vietnam

Un braccio teso, una mano che impugna un revolver Smith & Wesson calibro 38 special, un viso con gli occhi chiusi e una smorfia. La foto dell'esecuzione di Nguyen Van Lem, ufficiale dei Viet Cong, in una strada di Saigon il primo febbraio del 1968, è tra le più famose della guerra in Vietnam e del mondo.

Al pari di quella che ritrae una bambina di 9 anni, Phan Thi Kim Phuc, scappare nuda e ustionata dal napalm che ha distrutto il suo villaggio l'8 giugno del 1972, oppure quella scattata dalla fotografa francese Catherine Leroy che ritrae il soldato Vernon Mike chino sul corpo del suo commilitone morto sulla quota 881, a poca distanza dal confine col Vietnam del Nord, nell'aprile del 1967; aggiungiamoci anche quella del generale Frederick J. Karch, ritratto appena sbarcato sulla spiaggia di Da Nang con una ghirlanda di fiori al collo, dono dei civili che, come in una visione allucinante e allucinata, erano andati ad accogliere i 3500 Marines giunti sulla spiaggia l'8 marzo del 1965: il generale non sorride, il suo sguardo è “lontano”, la sua espressione contrita, quasi triste.

La guerra in Vietnam. 58mila (57939) morti americani, milioni i civili e militari vietnamiti, tra Nord e Sud, che hanno perso la vita in un conflitto durato, dal punto di vista statunitense, 10 anni. Un conflitto che, per la prima volta nella storia, è stato raccontato in tutta la sua crudezza dalla stampa, che poteva muoversi più o meno liberamente sui campi di battaglia di una guerra che non aveva fronte. Perché il fronte era Saigon, Da Nang, Hue, Khe Sanh e ogni altro posto dove “Charlie” - così erano stati chiamati i guerriglieri vietnamiti dagli americani, da Victor Charlie, le lettere dell'alfabeto fonetico militare che indicavano le iniziali di Viet Cong - aveva deciso di attaccare i soldati americani e i loro alleati. Perché in Vietnam, oltre agli statunitensi e all'esercito sudvietnamita, combattevano anche gli australiani, i neozelandesi e i sudcoreani, ma questa è un'altra storia.

Forse quella guerra che ha segnato più di una generazione di americani e che ha cambiato il modo stesso di concepire i conflitti, si può riassumere proprio con queste fotografie. C'è tutto: fango, fuoco, sangue, disperazione, dolore, e su tutto l'assurdo e la morte.

Proprio partendo da un'istantanea di morte, forse la più famosa al mondo insieme allo scatto di Robert Capa – poi rivelatasi “posata” - del miliziano repubblicano colpito a morte durante la guerra civile spagnola, vogliamo raccontarvi la storia che si nasconde dietro di essa, perché emblematica della guerra in Vietnam.

Il primo febbraio del 1968 l'Offensiva del Tet, la serie di attacchi sferrati dall'esercito regolare nordvietnamita e dai Viet Cong che sconvolse l'opinione pubblica americana, era cominciata da due giorni, e per le strade di Saigon, la capitale del Vietnam del Sud, si combatteva come se ci si trovasse in una base avanzata nella giungla, solo che il nemico non indossava i “pigiami neri” dei Vc ma pantaloni e camicia. Nguyen Van Lem era entrato in azione insieme ai suoi uomini per creare scompiglio e arrecare il massimo danno alle forze del Sud e statunitensi: alcune fonti ritengono che avesse tagliato la gola ad un ufficiale sudvietnamita, sua moglie e sei dei suoi figli (uno dei quali sopravvisse) per essersi rifiutato di mostrare come operare dei carri armati che erano stati catturati. Lem viene catturato dalla polizia del Sud, che davanti a quelli che considera come terroristi, non usa metodi da educande: il prigioniero, con le mani legate, viene portato dall'allora capo della polizia, il generale Nguyen Ngọc Loan, che estrae la sua pistola personale calibro 38 e lo fredda per strada.

La scena, terribile ma perfettamente in linea con la crudezza di quella guerra mai ufficialmente dichiarata, viene fissata su pellicola da Eddie Adams, un fotografo dell'Associated Press, e ripresa da un cameramen della Nbc (Vo Suu), ma è la fotografia a restare impressa nella memoria collettiva, più che il filmato, tanto che, l'anno successivo, Adams vinse il premio Pulitzer per quello scatto.

L'autore successivamente si rammaricò per l'effetto che ebbe quella fotografia, che, in qualche modo, “uccise” anche il Loan. Anni dopo scrisse sul Time che “il generale uccise il Viet Cong; io uccisi il generale con la mia macchina fotografica. Le immagini fotografiche sono le armi più potenti del mondo. La gente ci crede, ma le fotografie mentono, anche senza essere manipolate. Sono soltanto mezze-verità. Ciò che la fotografia non ha detto era: 'che cosa avreste fatto voi se foste stati il generale in quel momento, in quel posto e in quel giorno caldo, ed aveste catturato il cosiddetto cattivo dopo che avesse fatto fuori, due o tre soldati americani?' come fate a sapere che non avreste tirato il grilletto voi stessi?”. Adams arrivò anche al punto di chiedere scusa a Loan e alla sua famiglia per il disonore che aveva gettato su di loro.

Pochi mesi dopo quell'esecuzione sommaria per le strade di Saigon, il generale venne gravemente ferito da colpi di mitragliatrice che gli costarono l'amputazione di una gamba. Fu evacuato prima in Australia e poi negli Stati Uniti, per essere curato, per poi ritornare in servizio in Vietnam sino al 1975.

Nell'aprile di quell'anno, mentre quel conflitto andava rapidamente a concludersi in un modo altrettanto tragico, durante la caduta di Saigon, Loan riuscì a fuggire dal Vietnam del Sud stabilendosi definitivamente negli Stati Uniti, a Dale City, in Virginia. Loan si rifece una vita aprendo un ristorante/pizzeria chiamato “Les Trois Continents” nel sobborgo di Burke, Washington Dc.

La vita del generale, però, non trovò pace. La giustizia, questa volta dei vinti, lo inquadrò nel mirino e nel 1978 venne accusato di crimini di guerra, ma Loan trovò in Adams un testimone a sua difesa, e il provvedimento di espulsione che pendeva sul suo capo venne stracciato dal presidente Jimmy Carter, che considerò “folle” quella sorta di revisionismo storico. L'ex generale della polizia sudvietnamita chiuse la sua attività commerciale e andò in pensione nel 1991, per morire di cancro il 14 luglio del 1998, a 67 anni.

Dopo la sua morte, Adams dichiarò che “quel tipo era un eroe. L'America dovrebbe piangere. Odio vederlo andare via in questo modo, senza che la gente sappia nulla di lui”. Intervistato nel 1976 in merito alla vicenda che lo rese famoso in tutto il mondo, Loan dichiarò, riferendosi ai reduci di quella guerra: “tutto ciò che vogliamo fare è dimenticare ed essere lasciati soli”.

La tragedia nella tragedia è proprio questa: gli Stati Uniti hanno lasciato soli i reduci di quel conflitto, abbandonandoli non solo ai propri rimorsi, ma al ludibrio di un'opinione pubblica americana che, proprio grazie a fotografie come quella di Adams e a tante altre, aveva perso la sua “verginità” e, in quegli anni, stava cominciando a chiedersi se fosse giusto combattere la guerra in Vietnam e soprattutto se stessero combattendo dalla “parte giusta” della storia.

L'America ha trattato male i reduci di quel conflitto, li ha dapprima insultati, poi emarginati e financo nascosti, e troppo tardi ha fatto ammenda per quel trattamento. Giusto o sbagliato che fosse, ormai è storia, come è storia il fatto che, dal Vietnam, il modo di raccontare una guerra è cambiato: i giornalisti, i fotografi, hanno cominciato a essere “inglobati” nell'organismo militare seguendo i soldati al fronte (si definisce “embedded” in inglese). Si diventa, così, più controllabili, si vede quello che vogliono far vedere, si racconta quello che vogliono venga raccontato.

Certo, resta sempre la possibilità di essere totalmente liberi, e qualcuno – pochi invero – ancora lavora in questo modo, ma rispetto a quella guerra raccontare un conflitto senza il filtro “governativo” è, oggi, molto più complicato.

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