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U2, quella notte di The Edge a Sarajevo nel 1997

Pubblichiamo, per gentile concessione dell'editore e dell'autore, un estratto del libro The Edge. Oltre il confine di Andrea Morandi (Sperling & Kupfer). Quella notte di Edge a Sarajevo nel 1997

U2, quella notte di The Edge a Sarajevo nel 1997

Quella notte di Edge a Sarajevo nel 1997

Intanto la parte americana del tour era conclusa, e mentre la produzione iniziava a montare l’enorme palco del Pop Mart Tour a Rotterdam, arrivò una telefonata che ricordò agli U2 che c’era una promessa da mantenere: suonare a Sarajevo. La guerra era finita un anno prima e, molto lentamente, era cominciata la ricostruzione, che avrebbe richiesto molti anni; la maggior parte dei luoghi era semplicemente un cantiere a cielo aperto. Durante l’assedio, le artiglierie serbe avevano bersagliato di proposito i principali centri culturali della città, quindi musei, biblioteche e moschee erano ancora dei ruderi. Non solo: dal momento che raggiungere la città non era facile, tutte le attrezzature del tour vennero spedite in Bosnia su ruota, camion dopo camion. Bono incontrò il presidente della Bosnia ed Erzegovina, Alija Izetbegovic ́, mentre Larry venne portato da Muhamed Sacirbey, ambasciatore delle Nazioni Unite, a vedere la città o quello che rimaneva. Edge camminò da solo per Sarajevo, osservando per la prima volta i luoghi che tante volte aveva visto in televisione e durante lo ZooTV Tour. I muri delle case erano crivellati di colpi. Avevano ancora addosso segni di fuoco e fumo.

Il silenzio che li avvolgeva era surreale perché, senza dire nulla, raccontava tutto. Era come camminare in un museo dell’orrore in cui ogni singola cosa rimandava a un tempo di paura e dolore. La città sembrava aver perso la voglia di qualsiasi colore, come se fosse in lutto, come se dopo tutto quel buio gli occhi ancora non riuscissero a vedere la luce. Una lunga fila di palazzi giaceva sul lato della strada, sventrata dai bombardamenti, appoggiata alle sue stesse macerie. Un gruppo di bambini giocava a pallone come fosse la cosa più naturale del mondo da fare in quel posto. In quel momento. Sotto i suoi piedi l’asfalto era irregolare, segnato dai colpi di mortaio e dalle bombe. Come si poteva sopravvivere a tanto dolore? Come si poteva continuare a vivere dopo essere morti così tante volte? Avevano dovuto seppellire i loro morti nei parchi, nei giardini, nei campi, perché i cimiteri e i funerali erano presi di mira dai cecchini serbi. Avevano dovuto seppellire bambini uccisi mentre giocavano a palle di neve. Avevano dovuto andare avanti, e ora si ritrovavano ancora vivi. Nonostante tutto. «There’s many lost, but tell me who has won?» Il concerto venne organizzato all’Olimpijski Stadion Koševo, che era stato ristrutturato nel 1984 per i Giochi olimpici invernali di quella che ancora si chiamava Jugoslavia. Il camerino degli U2 era una stanza di cemento buia, lontana anni luce dagli sfarzi di Las Vegas. Erano trascorsi solo pochi mesi, ma il contesto era cambiato. All’esterno dello stadio le forze della Nato garantivano l’ordine pubblico e la gente cominciò ad arrivare per il primo grande evento dopo una guerra feroce in cui quello stesso stadio era adibito a obitorio. Ora c’erano loro e una folla di quarantacinquemila persone venute da tutta la Bosnia, ma anche dal Kosovo, dalla Serbia, dalla Croazia e addirittura dall’Ungheria.

Arrivò anche Brian Eno a portare «Miss Sarajevo» nel luogo in cui doveva stare, il luogo per cui era stata scritta e a cui apparteneva. A Bono a un certo punto andò via la voce, ma non importò quasi a nessuno. Poi, a metà del concerto, la band lasciò Edge da solo sul palco in una versione solo voce e chitarra di «Sunday Bloody Sunday». La canzone, tolti la rabbia e il volume, divenne una ninna nanna dedicata a tutte le persone che a quel concerto non c’erano. Ai quattordicimila morti durante l’assedio. Ai cinquecentoventuno bambini uccisi. A Emir, che a dodici anni era saltato su una granata. A Irma, che aveva undici anni e stava giocando con un’amica. Oppure a Dario, che aveva quattordici anni e amava suonare la chitarra ed ebbe solo la sfortuna di trovarsi al mercato di Sarajevo il 28 agosto 1995. Per tre minuti e trenta secondi Edge e le migliaia di persone davanti a lui furono una cosa sola, tanto che a un certo punto fu legittimo pensare che «Sunday Bloody Sunday» fosse stata scritta unicamente per essere suonata lì, tra le lacrime della gente che cercava di lasciarsi dietro il dolore. «How long must we sing this song?» Fu un momento talmente intenso che per tutto il resto del tour quella canzone l’avrebbe cantata sempre Edge, da solo.

Da The Edge.

Oltre il Confine di Andrea Morandi (Sperling & Kupfer).

The Edge

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