Erich Maria Remarque era andato in guerra, nel 1916, a diciott'anni, e dalle trincee, psicologicamente, non era più tornato. I combattimenti, le attese, l'orrore e la morte nelle Fiandre gli si erano incollati come una seconda pelle e in seguito né il successo né l'agiatezza riuscirono a strappargliela di dosso. Era un uomo affascinante, ma soffriva di depressione, era un seduttore, ma condannato all'impotenza. Quando nel 1929 uscì Niente di nuovo sul fronte occidentale, la risposta più acuta alle critiche di disfattismo e/o pessimismo, venne da uno scrittore francese considerato agli antipodi, Pierre Drieu La Rochelle, che quella stessa guerra aveva combattuto, e in un certo senso esaltato, sul fronte opposto e alla fine vittorioso. Remarque-Bäumer, ovvero l'autore e il suo doppio romanzesco e autobiografico, «è l'uomo che ha avuto su di sé il peso più pesante, la parte più schiacciante. E non gli si può rimproverare di esserne rimasto vittima. È un uomo che ha sofferto nella guerra una condizione di mediocrità, che pesava su di lui già nella pace e che non ha fatto che centuplicarsi. Non ha nemmeno potuto conoscere lo slancio divino dei primi giorni del conflitto». Al confronto, notava ancora Drieu, lui stesso e quelli come lui erano stati dei privilegiati, degli «amatori», e nessun paragone era possibile fra «l'esperienza estrema di questo giovane preso dalla guerra all'uscita del liceo e condannato ai lavori forzati sotto una tempesta di ferro e di fuoco per tre anni e quella di un ragazzo che non ha fatto che dei brevi soggiorni nella prigione infernale».
Il successo internazionale di Niente di nuovo sul fronte occidentale mise il suo autore in rotta di collisione con il nazismo che si avviava a divenire egemone in Germania, e quando poi Hitler prese il potere, Remarque fu costretto a emigrare. Impubblicabile, letteratura degenerata... Eppure, se si legge Tre camerati, ora riproposto da Neri Pozza con una nuova traduzione di Chiara Ujka (pagg. 476, euro 15), si fa fatica a incasellare questo scrittore in un generico pantheon buonista e pacifista, o nella sua versione, altrettanto politicamente corretta, di romanziere progressista e sociale, attento ai bisogni delle masse, desideroso di una palingenesi magari rivoluzionaria. La scarsa considerazione critica di certa germanistica del secondo dopoguerra, viene anche da qui, troppo individualista e a suo modo elitaria la sua visione del mondo, poco ideologicamente sfruttabile un antinazismo che non si coniugava né con il marxismo né con il capitalismo.
Ridotto all'osso, Tre camerati è un romanzo sulla fratellanza di guerra in tempo di pace, la Germania degli anni Venti e dell'inflazione alle stelle, dei profittatori e dei nuovi poveri, di una repubblica di Weimar che nessuno riesce a prendere sul serio, delle formazioni paramilitari di destra e di sinistra, dell'assenza di ogni morale quando è la fame ad avere ogni priorità. «Il gigantesco libro della povertà era più impressionante di qualunque biblioteca». Il titolo, del resto, vuol dire proprio quello, il legame indissolubile che si è creato al fronte, il camerata che è un altro te stesso, la sua vita che è la tua, la sua morte che va onorata e vendicata. Quando Gottfried, che con Otto e Robert ha fatto parte della stessa compagnia, cadrà vittima di un agguato di piazza, i suoi due antichi commilitoni non avranno pace finché non si saranno fatti giustizia con le loro mani. Non è un problema di leggi, di polizia, di tribunali.
Tre camerati racconta una generazione senza speranza. «Siete strana gente, voi giovani. Il passato lo odiate, il presente lo disprezzate e il futuro vi è indifferente. Non può che andare a finire male». Una generazione che si è giocata la giovinezza in guerra e quindi «non si è mai troppo giovani. Si è sempre e solo troppo vecchi». Eppure, proprio perché la loro giovinezza ha coinciso con la guerra, Robert, Otto e Gottfried per riappropriarsene non possono fare altro che applicare alla pace ciò che li ha fatti sopravvivere in trincea. «Finché uno non si arrende è superiore al destino. Vecchia regola militare». Anche nell'amore fra Robert e Patrice, il pensiero del primo non riesce a scrollarsi di dosso la polvere di ciò che è stato: «Avevo l'impressione che fossimo diretti alla stazione da dove saremmo partiti per il fronte». E del resto, la stessa Patrice è una vittima di guerra: la sua salute malandata, la tubercolosi come effetto della malnutrizione negli anni del conflitto, la condanna come fosse un proiettile o una scarica di mitragliatrice che viene a esplodere dieci anni dopo.
Si badi bene, Tre camerati non è un libro rassegnato, è un libro senza illusioni, che è una cosa diversa. I suoi protagonisti restano uniti e restano in piedi nonostante tutto e tutti, ma lo fanno in nome di quella fraternità virile per la quale hanno pagato lacrime di sangue. Non credono alle chiacchiere dei politici, gli dà fastidio la ricchezza esibita, aspirano anche loro al benessere, ma sono fatti di una pasta che al benessere mal si adatta. «Avevamo voluto marciare contro la menzogna, l'egoismo l'avidità e l'aridità di cuore, giustificazioni a tutto ciò che ci eravamo lasciati alle spalle. Eravamo stati duri, senza altra fiducia che quella nei camerati al nostro fianco e quella, che non ci aveva mai traditi, nelle cose: il cielo, il tabacco, gli alberi, il pane e la terra. Ma che cosa ne era sortito? Tutto era andato in pezzi, falsato e dimenticato. Il tempo dei grandi sogni umani e virili era finito per sempre».
Rispetto all'oggettività scarna e insieme potente di Niente di nuovo sul fronte occidentale, Tre camerati è un romanzo costruito con quella cura artigianale di stampo ottocentesco a cui un certo Novecento fra le due guerre seppe immettere una linfa nuova capace di innervarlo.
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