Il verso giusto L'albero Djuna Barnes, visionaria e sensuale


di Nicola Crocetti


Tutti i bambini, mano nella mano, talvolta
vanno nei boschi per svezzarsi dai genitori
e farsi un tempio tra le foglie. Il tronco
gelato a cui lo spirito dà calci in primavera
riscatterà l'inverno sul suo feretro?
Estrarrà dalla buca l'imbrattata poltiglia
\[che fu Cesare?
I dannati che piegano le ossa dei passeri
bruciate fino al nero dai fuochi, troveranno
riversi i pellegrini, un albero confitto
\[nella schiena?




(Da Discanto, Adelphi,
traduzione di Maura Del Serra)


Mitica romanziera dell'avanguardia letteraria newyorchese e parigina tra le due guerre (La foresta della notte, del 1936, le guadagnò l'ammirazione di alcuni dei maggiori scrittori del suo tempo, tra cui Eliot e Dylan Thomas, che lo considerava «uno dei tre grandi libri di prosa scritti da una donna»), Djuna Barnes è anche una poetessa visionaria dal linguaggio aspro e implacabile. «Tu rendi bello l'orrore: è il tuo dono più grande», le scrive un'amica, mentre per Montale è solo «una spugna d'acido prussico». Bella e dannata, mistica e sensuale, nevrotica e raffinata, Djuna nasce in una fattoria presso New York nel 1892. Nella Grande Mela studia, frequenta l'alta società e diventa giornalista. Nel 1921 viene inviata come corrispondente del mensile McCall's a Parigi. Vi resterà vent'anni, in piena epoca dell'arte e della letteratura modernista, scrivendo per importanti riviste letterarie e di moda newyorchesi cronache mondane e interviste, occupandosi di gossip e frivolezze, e pubblicandovi occasionalmente anche le proprie poesie.
Passionale e bivalente avventuriera dell'eros, gay dichiarata, intreccia un turbine di rapporti amorosi con donne e uomini, sconosciuti e famosi, nobili e intellettuali, artiste e dive del cinema, con l'ereditiera Peggy Guggenheim ma anche con un ingegnere minerario, per il quale tenterà il suicidio. Amica di James Joyce, gravita nella cerchia di scrittrici e poetesse come Mina Loy, Janet Flanner, Dolly Wilde e Gertrude Stein, diventata nota come «l'Accademia delle Donne».

Tornata a New York nel 1940, si autoreclude nel Greenwich Village, dove conduce una vita solitaria e appartata, quasi monacale (il che le varrà l'appellativo di Greta Garbo della letteratura), e dove muore novantenne nel 1982.

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