Cultura e Spettacoli

Vivere nell'Oceano padano. Dove ogni borgo è un'isola

Nel suo saggio-racconto Mirko Volpi va a caccia della natura profonda di chi nasce e lavora in questo mare d'erba. Senza lirismi, ma con orgoglio

Vivere nell'Oceano padano. Dove ogni borgo è un'isola

Un mare d'erba, anzi di melga (che per i lombardi è il mais). Questo è l'Oceano padano che si stende, piatto, per chilometri e chilometri. In mezzo villaggi e cascine, come piccole isole. Campi e rogge le separano, strisce d'asfalto, alternativamente arse dal sole o sommerse da pioggia e nebbia, le congiungono. E poi Lei, che spunta, già un po' aliena per gli abitanti delle campagne: Milano. La Grande isola, dove il più ruspante abitante delle piccole isole del grandissimo mare d'erba già prova un po' di disagio, di estraneità.

Questo pezzo di mondo, per molti semplicemente un non-luogo (per dirla come l'antropologo francese Marc Augé), è l'ambiente naturale di Mirko Volpi. Volpi fa il ricercatore di letteratura italiana all'università di Pavia (un espertone di questioni dantesche), eppure prima di essere uno studioso è un nosadellese. Cioè nato a Nosadello, uno dei tanti borghi che galleggiano in mezzo al mare d'erba, di melga. Quindi Volpi - per dirla con le sue parole - ha «assorbito secoli di permanenze, di vite in brevi raggi d'azione, resistendo inconsapevolmente al presente - che vuole che andiamo, vediamo, conosciamo, lontano da noi... Qui rieccheggiano invece ancora fuori tempo e fuori dal tempo le interrogazioni malmostose dei vecchi: “Ma dov'è che vai in giro a fà el stùped ? Sta' un po' a cà tua ...”». E lui a quell'ingiunzione ha obbedito. Ha osservato la “piana”, molto da vicino e per molto tempo.

Il risultato si chiama proprio Oceano Padano ed è ora in libreria (Laterza, pagg. 172, euro 13; collana Contromano). Non immaginatevi, sappiatelo subito, un inno monocorde alla padanitudine, magari al bel tempo andato delle cascine e del cibo buono del contadino. Niente lirismi agresti. Volpi mette assieme il suo affresco impastando cio che davvero c'è là fuori: cemento, sudore, terra, capannoni, rogge, dialetto, sterco. La poesia del suo libro è data dalla capacità di non alzarsi un centimetro dal suolo, dall'essere quasi pudico. Nel piano padano la dignità è silenzio. Si fa ma non si dice, si lavora e si riducono le parole al minimo. E se si parla, bisogna elencare fatti.

Il primo fatto è che non c'è niente di cui fare l'amarcord. Quello è per i foresti, quelli che vengono dalla città e ai quali glielo si vende. «È qui che si compie, a distanza di quattro secoli, la rivincita dello sciocco Renzo sull'ambiguo oste milanese... Adesso sono i cittadini a riversarsi nelle nostre bettole e a credere che il salametto e la luganega, assaporati con gli occhi lascivamente socchiusi, roteando con lentezza la mano libera in senso circolare a dirne l'impareggiabile, mai provata bontà, siano davvero nostrani e provenienti dal contadino qui dietro, che ha ammazzato (per loro!) il maiale giusto. I pochi salami nostrani che ancora si riescono a produrre fuori dai grandi allevamenti industriali, che qui abbondano, ce li mangiamo noi naturalmente».

Il secondo fatto è che questo oceano è vivo e come ha fatto per secoli «galleggia su tre elementi: acqua, letame e burro». Ed è di questa vitalità che si riempie il libro. C'è il dialetto ancora pulsante con tutte le sue espressioni. Il senso del lavoro che domina su tutto, l'ossessione del non stare con le mani in mano. Il peso del tempo ciclico, delle stagioni che qui in mezzo alle rogge hanno ancora un senso profondo, tutt'altro che metafisico. Volpi le distingue così: «Afa, desolazione fredda, gelo, desolazione tiepida». C'è la gioia di creare ricchezza che in queste popolazioni assume forza atavica. Tanto che guardare il mare vero, nella breve vacanza, crea straniamento: «Cosa ci adacquo? Ci irrighi mica i campi con questa...». Meglio una roggia, di quelle da cui ci si arrischia ancora a bere, e non certo perché siano acque di purezza adamantina. Si fa e basta, con lo scongiuro: «Acqua sorgente/ la beve il serpente/ la beve Iddio/ la bevo anch'io».

Intendiamoci, il libro racconta una grande bellezza. Che però va cercata in mezzo alla “spusa” della merda di vacca. Una bellezza vera e rustica, sospesa nel silenzio che separa il rombo della mietitrebbia da quello del temporale. Ed essendo una bellezza di questo tipo l'unico modo di renderla poetica era la prosa. Prosa che Volpi è molto bravo a far andare a ritmo. Parole che ti danno l'impressione di avanzare alla velocità del trattore, con tutto il tempo per guardare. Parole che essendo lombardo fa fatica a pronunciare: «Ma se fossi davvero capace di rispettare l' ethos padano dovrei tacere, dimenticare di sapere, chiudere una volta per tutte questa pratica affabulatoria inadatta a luoghi che chiedono distacco... che non si lasciano dire se non per difetto, per sottrazione ingenerosa».

Parole che però quei luoghi arcani, puzzolenti e dai nomi meravigliosi (Barbuzzera, Massalengo, Maclodio, Fara Gera D'Adda...

) si meritano.

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