Volponi, i giudizi villani di un signore della parola

Volponi, i giudizi villani di un signore della parola

«La Storia di Elsa Morante? Il romanzo con il quale comincia l’involuzione della letteratura italiana. Un libro in ritardo, regressivo. Un libro di ammiccamenti nei confronti del lettore... Infatti lo leggevano tutti quelli che non avevano mai letto».
«L’uomo è un animale, un essere politico. Guarda New York, che roba. Mette paura, qui, l’assenza della politica. L’uomo, qui, che cos’è? È tolto dalla sua verità, che è la politica... Qui trovi il barbone o trovi il dirigentone: gli estremi di una scala che non ha nulla dell’umano. Questa è una città bellissima, ma cattivissima. Nuovissima, ma vecchissima».
«Quelli del Gruppo 63 si sono chiusi all’interno di un catalogo... Sono diventati un gruppo stretto, che in quanto tale ha finito per essere un gruppo di potere, o comunque per fare una politica di gruppo. A trovare necessariamente i bersagli, gli scontri. Ha prodotto pochissimo, sul piano narrativo».
Paolo Volponi scriveva molto bene. Ma chi ebbe la fortuna di ascoltarlo dice che parlava ancora meglio. Senza finzioni. E con passione. Scrittore dalla prosa complessa e conversatore dall’eloquio suadente, Volponi per predisposizione caratteriale (sanguigno, umorale, curioso) e per abitudine professionale (mega-dirigente nel settore delle pubbliche relazioni) era uno straordinario «signore della parola». Nelle pagine dei romanzi, nei duelli dialettici, nei discorsi parlamentari.
Tra letteratura, industria e politica Paolo Volponi, che fu narratore, manager e senatore, dispensò per tutta la vita la sua eccezionale ars affabulatoria. Un intellettuale tagliente, diretto, affascinante. Lo conferma una sua bellissima conversazione, risalente alla migliore maturità umana e letteraria di Volponi (1924-94), poco prima della morte violenta del figlio Roberto, scomparso in disastro aereo a L’Avana nel 1989, e quando ancora non si era manifestata appieno la devastante malattia che lo ucciderà, nell’estate del 1994. È l’intervista, rimasta sinora incisa su un registratore e mai divulgata prima, che Volponi sostenne con l’amico Luigi Fontanella, ordinario di Letteratura italiana alla State University di New York, nell’aprile del 1988, in una affollata caffetteria di Manhattan. Un pezzo di storia letteraria che ora torna alla luce, pubblicato da Aragno col titolo L’inedito di New York. Un «pettegolezzo», coltissimo, sulla poesia, il romanzo, l’America, la politica, l’avanguardia... Una buona scusa per tornare a parlare dell’autore di Corporale, l’intellettuale al servizio di Adriano Olivetti, il senatore del Pci. Uno dei grandi scrittori impegnati del secondo Novecento, per ben due volte premio Strega, eppure - come nota lo stesso Fontanella - vittima del «massiccio disinteresse della nostra Intellighenzia».
Dimenticato dall’Intellighenzia ma ancora amato dai lettori, nonostante una certa indifferenza editoriale (nel 2010 Einaudi ha ripubblicato Le mosche del capitale e lo scorso anno Ediesse ha raccolto i suoi discorsi in aula, Parlamenti, per il resto poco altro...), Volponi fu un uomo di grande passione civile ma intellettualmente controcorrente. Dal punto di vista ideologico era un carro armato (contro il clientelismo e la corruzione della classe politica italiana, contro il cinismo del turbo-capitalismo, contro l’iper-consumismo, contro l’anti-cultura televisiva... tutti temi ancora molto di moda, come si vede), ma dal punto di vista «letterario» era un battitore libero.
Come dimostrano i giudizi spiazzanti, e imprevisti, affidati alla conversazione newyorkese. Dove Volponi confessa che avrebbe lasciato subito l’Olivetti, se avesse ottenuto il successo letterario: «mi sarei messo a vivere anch’io di giornalismo, di cinema, come tutti i letterati... ma non ero sicuro di riuscire a fare altre cose. Mentre lì all’Olivetti lavoravo e guadagnavo... Ho fatto carriera, ho avuto fortuna, ero diventato il capo del gruppo». Dove non ha paura di fare il contropelo a chi non seppe cogliere la novità del suo Corporale, nel ’74: «Ci furono critici come Paolo Milano che non capirono un cazzo, e dissero “Mah, non ho capito se è un libro di stagione o no; se è qualcosa di più, debbo rileggerlo”... Sai, quando l’Espresso, un giornale che faceva testo, liquida tutto con questa battuta infelice di questa testa di cazzo, morto adesso, ma testa di cazzo da vivo.. eh...». Dove si scaglia contro l’intoccabile Elsa Morante: «Ah, volete un libro facile? Perché la gente vuole ancora questi romanzetti che assomigliano a I miserabili... E allora, ho detto: ve lo faccio io. E ho scritto Il sipario ducale». Dove mette in riga, quando serve, anche i «grandi» scrittori più giovani di lui: «Tabucchi lo apprezzo, ma è un po’ esile. Resta all’interno di un gioco che è sempre quello del Sudamerica borgesiano». I suoi «contemporanei»: «Che mi fa Manganelli, oggi? Sul piano sociale? È uno che scrive bene. E chi se ne frega?».

E persino i «vecchi maestri»: «A Calvino volevo bene, oltre ad ammirarlo.... Certo, uno scrittore importante... Però, alla fine, questa sua smania di essere Borges... Troppo cerebrale... Ma anche banale, semplice. Perché poi non aveva il gran fiato...».

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