D’Alema: se vinciamo, Berlusconi dovrà vendere

Laura Cesaretti

da Roma

Cosa farà Massimo D’Alema da grande, ossia nella prossima legislatura? Il presidente della Camera, o magari della Repubblica, oppure il ministro degli Esteri? Il diretto interessato, a diretta domanda, preferisce non rispondere: «Porta male, sono meridionale», si schermisce scherzoso. Certo, di cose ne vorrebbe fare «tante», ammette. Ma il suo futuro ruolo «dipende da Prodi», concede. «E anche dal segretario del mio partito, Fassino», aggiunge.
Sul suo prossimo futuro, e sull’intricata partita di potere che è già aperta nel centrosinistra per risiko degli incarichi istituzionali e di governo, D’Alema non si fa stanare dalle domande incalzanti dei suoi intervistatori, Giuliano Ferrara e Ritanna Armeni che lo ospitano a «Otto e mezzo» e il direttore del Giornale Maurizio Belpietro. Un dibattito «serafico e cavalleresco», ironizza Ferrara, e il presidente della Quercia si presta al gioco e concede anche qualche riconoscimento al Gran Nemico Silvio Berlusconi, come quando parla del «gesto positivo» del premier che ha rinunciato alla conferenza stampa tv, aprendo la strada al faccia a faccia con Prodi e «a una campagna elettorale da Paese normale». O come quando ammette che nel suo intervento al Congresso Usa il premier «ha saputo trovare i toni giusti, e non ha fatto un discorso propagandistico, bisogna dargliene atto». O quando confessa che trova «urtante» chi, come Umberto Eco e tanti intellettuali e girotondini della sinistra, grida alla democrazia in pericolo o denuncia il «regime»: «Dissi che era sbagliato parlarne anche subito dopo la vittoria di Berlusconi nel 2001, quando fui invitato alla famosa assemblea dei “professori” di Firenze. Mi fischiarono, ma tenni il punto». Niente regime, dunque, ma «anomalie» sì: e quindi, promette D’Alema, nella prossima legislatura l’Unione dovrà varare «una legge rigorosa sul conflitto di interessi» per fissare «l’incompatibilità tra il possesso di concessioni tv e il ruolo di capo del governo». Se poi Berlusconi vorrà continuare a far politica «e magari ricandidarsi nel 2011, avrà cinque anni di tempo per sistemare la sua situazione». Ma su un argomento il suo aplomb vacilla, e D’Alema si innervosisce: Unipol. Pochi giorni fa, proprio sul Giornale, ha rifatto capolino la famosa telefonata estiva tra lui e Giovanni Consorte, e D’Alema parte all’attacco: «Vorrei proprio sapere chi glieli passa, quei dischetti coperti da segreto istruttorio», si inalbera rivolto a Belpietro. Che però gli ricorda che la telefonata era riportata dal libro «L’inciucio» della premiata ditta Travaglio&Gomez: «Nessun dischetto, Travaglio è anche collaboratore dell’Unità... Ma sarebbe interessante sapere cosa vi siete detti con Consorte quella volta, visto che a quanto pare i magistrati hanno sospettato che si trattasse di una fuga di notizie sulle indagini in corso». D’Alema reagisce piccato: «Di quei sospetti ho appreso dal suo Giornale, veramente. Anche perché il libro di Travaglio mi era sfuggito. Ma se i magistrati si insospettissero, saprebbero dove trovarmi...». Il problema, ribatte Belpietro, è che «sul caso Unipol c’è stata una colata di cemento per chiudere la vicenda, come su Chernobyl, e la notizia che aveva riempito le prime pagine è improvvisamente scomparsa, retrocessa alle pagine economiche. Di quei 50 milioni di euro in nero ricevuti da Consorte e Sacchetti non si è più saputo nulla». Perché era solo «una bufala», scandisce il presidente della Quercia: «La versione che era stata proposta della vicenda Unipol come epicentro di una questione morale, di una nuova Tangentopoli con al centro i ds non esisteva».

Ci sono solo le «responsabilità personali di alcuni dirigenti che hanno avuto dei soldi e sostengono di averli avuti per prestazioni professionali, e su questo si farà chiarezza». Questa dunque è «la realtà», secondo D’Alema. Se invece «si vuole solo sollevare spazzatura, si finisce per farsela ricadere sulla testa. Come diceva il presidente Mao».

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