D’Antoni: «Vorrei New York come la mia Milano»

MilanoLa voglia sarebbe di vestirsi da guastatore nel regno milanese dei Knicks in piazza della Reppubblica dove il gallo Gallinari canta a tutte le ore, forse anche troppo in attesa della festa di domani pomeriggio al Forum. Ma poi vedi Mike D'Antoni, lo abbracci e allora meglio mettersi seduti ascoltando il cuore e non quello che ti dirà l'allenatore di una squadra giovane, età media 24 anni, uno che vive il suo tormento professionale in una città difficile, accompagnandolo per le antiche scale della Milano che per lui è stata tutto: vita, famiglia, gioia e sofferenza perché anche quando vinceva tanto Arsenio non dimenticava mai i primi anni di sconfitte sul filo, le notti al Torchietto aspettando l'alba, cercando di capire che cosa non aveva funzionato.
In Italia ha vinto tutto, sul campo di basket, alle carte, ha conquistato cuori che neppure sapevano cosa fosse il basket dell'Olimpia, in America è stato eletto anche allenatore dell'anno a Phoenix, ma con i Knicks si è messo nel frullatore e anche lui non sa ancora come andrà a finire.
Male che vada un posto in Italia ci sarà sempre.
«In casa ne parliamo spesso, quando mio figlio finirà con la scuola vedremo: ci credo in questo nuovo gruppo, c'è atmosfera, voglia di faticare, ma a dicembre sapremo la verità. No, non domani al Forum, il precampionato è un inganno, con Milano facevamo figuracce per tutta l'estate, ma al momento giusto eravamo tutti uniti, pronti. Magari questi Knicks potessero diventare una famiglia come quella che si era creata dal risveglio in via Caltanisetta al lavoro nella secondaria del Palalido».
A Milano non tornava da troppo tempo, cosa si è portato via nella valigia lasciando l'Italia?
«Soltanto dei bei ricordi. Adesso che vi rivedo tutti, però, penso alle vostre facce quando perdemmo contro Cantù la finale di Grenoble in coppa Campioni. Loro erano magnifici, ma noi eravamo più forti, eppure andò male, una lezione durissima, ma anche quella ci fece bene, perché è quando le cose non vanno che scopri davvero la tua famiglia. Ho vinto abbastanza, ma lo scudetto perduto contro Caserta nella quinta partita al Forum, il primo volo da allenatore, è ancora una ferita aperta. Si sbaglia, si paga. A New York vorrei lasciare questa idea che le squadre possono crescere soltanto se accetti i difetti degli altri, se ci lavori sopra».
Laurel, la compagna, la pasionaria incontrata proprio a Milano, vorrebbe andare con lui a vedere dove hanno abitato, da viale Piave a corso Indipendenza, ma non c'è tempo, c'è una squadra nuova da mettere insieme.
Fuori dalla tana vi aspettano con il fucile puntato, il Gallo riuscirà ad essere quello che sogna come ci dice nel suo libro?
«Speriamo, mi sembra più solido, più completo, certo scrivere un libro sulla propria vita a 22 anni deve essere difficile, devi scrivere molto largo. Lui ha la testa, lui con Stoudemire avrà un grande esempio, lui con il russo Mozgov, con Rautins, gli altri ventenni del gruppo, può andare lontano. Speriamo di andare lontano tutti».
Una frase sentita spesso negli anni milanesi quando Peterson, Cappellari, ma prima ancora Bogoncelli e Rubini, costruivano il grande muro. Voi a New York ce lo avete questo muro?
«Vorremmo averlo, ma adesso lasciatemi respirare l'aria di una città che mi sembra anche più bella e pulita del solito. Non esiste un Peterson al mondo, spesso me lo ripeto, anche se poi per farlo arrabbiare dico per fortuna quando esagera...».
Galliani gli regala la maglia di Ronaldinho, lui la sventola in faccia alla moglie interista, ma si prende gli applausi del milanista Gallo che intanto abbraccia Maldini e Costacurta.

Chiede se esiste ancora la schedina, ogni tanto la facevano in gruppo e vincevano pure, ma poi chiude con i ricordi e si mette al lavoro: «C'è tanto da fare, guardate Gallinari come fiorisce, ma a tutti dico sempre se fate il grande passo dovete essere pronti dentro, sicuri di voi stessi, meglio aspettare come fece Ginobili e poi mettere le mani sulla torta».

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