Un ago poco calibrato, oppure una manina malandrina «dimenticata» su uno dei piatti. Restano sempre due pesi e due misure a squilibrare la bilancia tra i comitati di redazione dei tg Rai e i rispettivi direttori. A cui le assemblee sindacali concedono il diritto di espressione a senso unico.
L’ultimo caso è quello di Augusto Minzolini, crocifisso nella sala mensa di viale Mazzini dal cdr del Tg1 per il suo editoriale. «Assoluta irritualità», si leggeva nel comunicato, presto affiancato da una dichiarazione del presidente di Vigilanza Rai, Sergio Zavoli: «L’editoriale non corrisponde allo spirito e alle modalità di un servizio pubblico». Insomma un direttore sta nel retrobottega e non prende parte. Però, a pensarci bene, Sandro Curzi ha fatto dei suoi interventi possenti la cifra stilistica di quel Tg3 tra gli anni ’80 e ’90 passato alla storia come «Telekabul». Editoriali «di linea», posizioni più partigiane che partitiche che resero il tg un «organizzatore collettivo». Curzi era un comunista vero, intatto, un professionista serio. E nessuno giudicava i suoi comizi «irrituali».
Si ribatterà: il Tg1 è un’altra cosa. Vero, nella fattispecie è un principato autonomo all’interno della confederazione televisiva pubblica, dove i direttori di area moderata sono accolti come l’ambasciatore persiano nell’antica Sparta: più o meno a pedate. A volte perfino immediatamente, come nel caso di Rodolfo Brancoli, a cui l’assemblea non concesse neppure la fiducia. «Hanno votato contro perché si opponeva a “marchettopoli”», dichiarò il suo vice Magliaro. «Comprendiamo l’amarezza dopo il suo insuccesso», reagì glacialmente il cdr. I direttori «amici», invece, come Gad Lerner, sono difesi. Dopo lo scandalo delle immagini sul caso pedofilia, nel 2000, il cdr implorò la Rai di non accettare le sue dimissioni. E che dire di Gianni Riotta? Quando andò in onda un servizio sulle contestazioni a Romano Prodi senza l’audio dei fischi, il cdr minimizzò: «Solo un disguido tecnico». E nel caso dell’ultima direzione di Albino Longhi, già curatore dell’immagine di Prodi, al massimo si parlò di «perplessità» per non aver dato visibilità a una telefonata di Gasparri a Quelli che il calcio. E gli ascolti calavano.
Tutt’altra cosa la «guerra» contro Bruno Vespa, sia da direttore che da «vicino» di palinsesto con Porta a porta, o contro Carlo Rossella, accusato nel 1996 di aver rimosso dal processo Berlusconi un cronista «sgradito». Recordman delle polemiche fu però Clemente Mimun, direttore dal 2002 al 2006. Riassumendo per difetto, fu accusato di «non garantire la par condicio nelle Politiche 2006, dando più spazio alla Cdl», di «sottoutilizzare i colleghi», di essere responsabile di «un calo drammatico di ascolti» nonostante il controsorpasso sul Tg5. Senza contare gli screzi con Francesco Giorgino, rimosso dalla conduzione dopo aver criticato Mimun sui giornali, e con Lilli Gruber. Gli si rimproverò di non aver parlato dell’indagine sui figli di Berlusconi e di un cda Fiat, con comunicati in cui si stigmatizzava «l’evidente servilismo dei dirigenti» e in cui si manifestava «disagio intollerabile». Tra le firme, anche quella di David Sassoli, poi candidato nel Pd come la Gruber.
Ma il capolavoro del cdr contro Mimun è datato 2005. Nelle ore successive alla morte di Nicola Calipari, il Tg1 non comunicò il nome della vittima e venne criticato. Nell’edizione successiva, Mimun fece leggere un comunicato in cui si spiegava come il Tg1 mostrasse i documenti solo se confermati. Apriti cielo.
Il cdr replicò che tale metodo era «inaccettabile»: «Se il direttore sente la necessità di rispondere a delle critiche, lo faccia in prima persona con un editoriale». Un po’ quello per cui Minzolini sta ancora là, crocifisso in sala mensa.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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