Laura Cesaretti
da Roma
«È la stampa, bellezza», diceva Bogart e ripete DAlema: è la stampa che crea «polemiche artificiose» e mette in contrapposizione lui e il segretario del suo partito.
E prima sullIran, con Piero Fassino che aderisce di slancio alla fiaccolata pro-Israele promossa da Giuliano Ferrara e DAlema che arriva solo tirato per la giacchetta da editoriali pungenti del Corriere. E poi su Mussolini, che per DAlema non andava freddato in mezzo alla strada ma processato in una «Norimberga italiana» mentre per Fassino «non ha senso riaprire una pagina che si presta solo a un revisionismo storico strumentale». DAlema si è giustamente seccato, a questo punto, e ieri ha dato unintervista a lUnità per spiegare che il «caso» non esiste, è tutto frutto di unoperazione pubblicitaria di Bruno Vespa che ha diffuso due «interviste parallele» a lui e Fassino, estrapolandone «spezzoni di frasi» per «suscitare curiosità» attorno al suo ennesimo libro. E che i giornali si sono allegramente tuffati nel caso che non cera. Solo che nel frattempo, sempre ieri, Fassino dava unintervista alla Stampa che potrebbe finire per riaccendere il caso che non cè, questa volta sullIrak. Perché se DAlema allUnità dice che lì cè «un autentico disastro», una situazione «dove la via duscita è difficilissima», e ribadisce «le ragioni di un necessario ritiro del contingente italiano ma anche delle truppe americane che a me non pare che fin qui siano state un fattore di sicurezza», Piero Fassino usa toni assai diversi. Parla con rispetto di Bush (che per DAlema è «un leader in declino») e assicura che il governo dellUnione «collaborerà lealmente» con lui, che «è stato scelto dagli elettori». E boccia il ritiro: «Tutti a casa è unespressione che non mi piace, dà lidea di rinunciare ad assumersi le proprie responsabilità», dunque «insieme con gli iracheni, gli americani e gli inglesi discuteremo un calendario di ritiro utile alla transizione irachena», perché «noi non vogliamo che lIrak torni indietro» dopo tanti passi avanti: elezioni, Costituzione, governo.
Magari si tratta solo di toni, di sfumature. Ma è probabile che qualcuno («La stampa, bellezza») ci inzuppi il pane. Anche perché il tam tam interno alla Quercia da settimane alimenta lidea di uno scontro sotterraneo tra presidente e segretario. Non tanto su revisionismo storico o politica estera, quanto sulla politica. È stata la dalemiana Velina rossa a lanciare nei giorni scorsi lallarme su Fassino «pigliatutto»: il segretario avrebbe fatto sapere che con la nuova legge elettorale lultima parola sulle candidature in Parlamento spetta a Roma, dunque a lui. Ci sono «troppe compatibilità territoriali, politiche e di genere» da comporre, ha spiegato nelle varie federazioni la fassiniana Marina Sereni, capo dellOrganizzazione, per non centralizzare le decisioni. E, salvo deroghe sempre decise a Roma. Per i Ds (la Margherita non ci pensa neppure) varrà la norma dei due mandati: chi è stato eletto già due volte torna a casa. Il che, si spiega, servirà a sfoltire assai le schiere dalemiane in Parlamento per far posto a new entries più vicine a Fassino: fuori Anna Finocchiaro e Michele Ventura, ad esempio, e dentro Cesare De Piccoli, Fabrizio Morri, Cesare Damiano. I dalemiani hanno provocatoriamente risposto chiedendo le primarie anche per le candidature, la segreteria ha replicato che non si può. Cè anche il caso di Anna Serafini, moglie di Fassino e non rieletta nel 2001: si è parlato di una sua candidatura al Senato, prima a Ferrara e poi a Reggio Emilia, ma le esponenti diessine emiliane si sarebbero opposte. «Sono tutte dalemiane, e han dato la notizia ai giornali per bruciarla», spiegano in casa ds.
Daltronde, anche il segretario sarebbe sottoposto a un pressing dalemiano: quello sul doppio incarico. Se vuole andare al governo (vicepremiership e Farnesina, si dice) deve lasciare la segreteria. A chi? La Velina rossa ha fatto a più riprese il nome di Pierluigi Bersani, e si è parlato anche di dalemiane doc come Livia Turco. Ma Fassino, secondo alcuni, potrebbe rinunciare al governo e restare al partito, tenendosi di riserva per il futuro se i margini di forza e durata del governo Prodi fossero risicati.
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