Gian Micalessin
Il verbo di Ayman al-Zawahiri era pronto a diventare realtà. Pronto a trasformarsi in un nuovo simbolico attacco allAmerica allindomani del quinto anniversario dell11 settembre. Lattacco è anche scattato, ma è stato solo un pallido riverbero di quel terrore con cui il mondo ha imparato a far i conti in questi cinque anni. I diplomatici dellambasciata statunitense di Damasco, obbiettivo dellincursione integralista, se la sono cavata senza un graffio. Lunico morto, oltre ai tre terroristi, è un esponente dei servizi di sicurezza siriani. Anche i feriti, tranne due iracheni e un impiegato delladiacente ambasciata cinese colpito di striscio da un proiettile, sono tutti siriani. Per di più le forze di sicurezza di Damasco sono riuscite a catturare vivo uno degli autori dellattentato e potrebbero, grazie agli assai persuasivi metodi dinterrogatorio per cui vanno famosi, riuscire a sgominare almeno una parte delle cellula siriana di Al Qaida.
Certo la potenza di quellattentato allambasciata statunitense di Damasco non si nutriva soltanto di armi ed esplosivo. Più devastante di quelle, se tutto andava come programmato dai demiurghi del terrore, era la carica politica di un attacco ad unambasciata Usa messo a segno in un Paese nel mirino di Washington. Da quella rappresentanza di prima linea, diventata ancora più a rischio dopo il recente conflitto tra Israele ed Hezbollah, gli Stati Uniti hanno ritirato lambasciatore signora Margaret Scobey subito dopo lassassinio del leader libanese Rafik Hariri. Una mossa decisa per sottolineare le dure accuse lanciate al presidente Bashar al-Assad e ai vertici del regime siriano.
Questo delicato scenario era nei calcoli dei terroristi la loro arma più devastante. Se quel muro di cinta crollava, se quel furgone vi apriva un varco e consentiva ai terroristi una strage di marines e diplomatici Washington doveva reagire mettendo Damasco alle corde. E Al Qaida sarebbe stata ben felice di sfruttare quel nuovo terreno di cultura per continuare a metter radici nel cuore dellinstabile nazione siriana.
Ma nel quartiere diplomatico di Abu Remmaneh alle 10 e 15 di ieri mattina le cose non filano così lisce come immaginano i nipotini di Osama Bin Laden e Ayman al-Zawahiri. Loro sono quasi certamente militanti di Jund al-Islam, una formazione vicina di Al Qaida. Hanno messo a segno i loro primi attentati nel 2004. Un anno dopo, le forze di sicurezza siriane hanno impartito loro una serie di duri colpi, arrestando e uccidendo un buon numero di capi e gregari dellorganizzazione. Ma nella primavera di questanno Jund Al Islam ha rialzato la testa con un attacco alla ministero della Difesa costato la vita a quattro persone.
Il piano dassalto allambasciata di Damasco segue uno spartito consueto, già visto almeno una decina di volte. Un primo gruppo dattaccanti suicidi deve impegnare le forze di sicurezza. Un secondo gruppo ha il compito di lanciarsi contro il muro di cinta a bordo di un furgone imbottito desplosivo e aprire un varco per raggiungere linterno dellambasciata fortificata. Il primo segnale dellattacco è lAllah Akbar, Dio è Grande, urlato a squarciagola dagli attaccanti appena scesi dalle automobili. Subito dopo riecheggiano le raffiche dei mitragliatori e le esplosioni delle bombe a mano. Ma attorno allambasciata vi sono almeno trenta uomini dei servizi di sicurezza siriani. I quattro terroristi tentano inutilmente di far avanzare un furgone caricato con un ordigno rudimentale formato da una bombola di propano circondata da tubi imbottiti desplosivo. Mentre unautomobile va in fiamme, tre dei terroristi vengono abbattuti e un quarto catturato. A terra resta anche un esponente delle forze di sicurezza di Damasco. Tuttattorno si raccolgono un decina di feriti colpiti da schegge e proiettili vaganti.
Alla fine lattacco e la reazione delle forze di sicurezza siriane contribuiscono a ricucire i rapporti tra Washington e Damasco. «I siriani hanno reagito garantendo la sicurezza dei nostri diplomatici e noi lo apprezziamo molto», dichiara immediatamente il segretario di Stato Condoleezza Rice. Subito dopo il portavoce della Casa Bianca Tony Snow si spinge ancor più in là.
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