Daniela Dessì al Regio squisita Manon Lescaut

Convincente inizio di stagione a Parma con l’opera pucciniana

Alberto Cantù

da Parma

«Manon Lescaut è il nostro Tristano. Un Tristano istintivo, non problematico, senza implicazioni cosmiche, formato ridotto: precisamente quel tipo di Tristano che l’opera italiana poteva produrre. Ossia un unicum; e garantito da una violenza inventiva che Puccini, con tutte le sue perfezioni di poi, non avrebbe ritrovato mai più».
In quattro parole, il compianto Lele d’Amico, principe fra i critici musicali del Novecento, riassume caratteri e specifico del primo, giovanile e irripetibile (come Idomeneo per Mozart) capolavoro pucciniano. Quella vicenda «d’amore e morte» - Tristano, appunto -; quella partitura studiatissima dove l’influsso di Wagner sta nei motivi conduttori (Manon ha il suo tema) come in un sinfonismo spiegato e in una raffinatezza timbrica pregnante di colori e accenti che l’Intermezzo, alfa e omega dell’opera, incarna.
«Parma capitale della musica» ha aperto martedì la stagione d’opera al Teatro Regio proprio con Manon Lescaut che a Parma non si vedeva, chissà perchè, da un quarto di secolo. Nuovo allestimento, dunque, affidato al regista inglese Stephen Medcalf il quale spoglia la scena da ogni ingombro distraente e punta sulle relazioni fra i personaggi, sulla loro psicologia e sull’impatto delle masse che muove e addensa in modo magistrale con taglio fra il pittorico e il cinematografico. Punta sulla recitazione, insomma - sulla regia: evviva - con l’aiuto di Jamie Vartan per i costumi settecenteschi e una scena stilizzata. Accentua il «wagnerismo» con una messa in scena immersa in un livido, opaco grigio di morte dove il fondale si apre, discreto, per accogliere i passeggeri in carrozza e i deportati via mare. La piazza ad Amiens è una folla serrata e imprevedibile, uno spazio dove bracci lignei che sono sorta di forche - ancora la morte - reggono le insegne delle osterie. Bracci da cui nel salotto del secondo atto penderanno inquietanti specchi ovali davanti ai quali Manon si moltiplica in tante se stessa.
Sin dall’inizio un Des Grieux-Prévost scamiciato e disperato rilegge il suo romanzo ossia la sua vita ridotta a frammenti di fogli. Aleggia come un’ombra tra la scena e un palco di proscenio dove compariranno cicisbei adoranti e vecchioni bavosi (poi i loro fantasmi nei deliri del deserto). Il coro di Parma (maestro Martino Faggiani) è eccellente mentre l’orchestra, sotto la bacchetta di Pier Giorgio Morandi, non va oltre uno schematismo spiccio e una troppo netta e squadrata andatura con l’Intermezzo «spigoloso» nei suoni e dal canto trattenuto ovvero per nulla pucciniano. Star e vertice della produzione è Daniela Dessì, Manon dove il lirismo squisito e dolente delle «Trine morbide» (ma perché l’orchestra è sempre «fuori» ?) conferma l’esemplare controllo dei fiati con diminuendo e crescendo dalla calibratura espressiva e psicologica mirabile. Lirismo sfumato, ma anche impennate drammatiche, acuti sicuri e squillanti (pure il «do») con un «Sola, perduta e abbandonata» di forte valenza emotiva e applauditissima. Il Cavaliere Des Grieux è Fabio Armiliato. Nel primo atto, dove si richiede una bella pasta morbida e ampio eloquio, il suo canto di forza funziona meno che altrove. Buon cantante la cui voce però «corre» poco è Carmelo Corrado Caruso (Lescaut) e un Geront né carne né pesce Angelo Romero.


Teatro gremito, successo caloroso con in sala Carlo Bergonzi, re dei tenori verdiani, Emanuela Castelbarco, nipote di Toscanini e la rossiniana Lella Cuberli. Ovazioni, qualche lieve dissenso per Armiliato e un po’ meno lieve per l’allestimento. Bell’inizio di stagione.

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