De Benedetti censurò la stampa quando fu arrestato, ora non ricorda

L'editore di "Repubblica" non racconta cosa accadde nel 1993, quando era sotto accusa. Intervistato sui suoi traffici all'Olivetti fece cancellare le domande scomode

De Benedetti censurò la stampa 
quando fu arrestato, ora non ricorda

Carlo De Benedetti, editore di La Repubblica, lunedì ha tenuto a Oxford una lezione di etica e giornalismo. In sintesi l’ingegnere ha sostenuto che la maggior parte degli italiani sono male informati perché subiscono l’influenza delle reti televisive di Berlusconi, che i suoi giornali, La Repubblica e L'espresso, sono gli unici che sfidano i potenti e che garantiscono ai cittadini la conoscenza e il sapere indispensabili per far crescere la libertà.

De Benedetti ha parlato a lungo del rapporto tra giornali e potere, ha fatto esempi su editori (lui) e giornalisti (i suoi) a schiena diritta e altri supini. Pratica che conosce bene anche se a volte la memoria lo tradisce. Per esempio i giovani studenti inglesi non sanno che De Benedetti, a differenza di Silvio Berlusconi, finì in galera per tangenti (condanna evitata per sopraggiunta prescrizione). E non lo sapranno mai perché il fatto è stato accuratamente censurato (come l’oblazione di una condanna per falso in bilancio ottenuta grazie alla legge del governo Berlusconi che in questi giorni La Repubblica definisce «legge ad personam» ) da tutte le biografie esistenti, compresa quella della libera (?) Wikipedia. Eppure avvenne, è storia.

La data è il 31 ottobre 1993. Un alto ufficiale dei carabinieri bussò alla porta di casa De Benedetti a Torino. Aveva in mano un ordine di custodia cautelare firmato dalla procura di Roma. Casualmente l’ingegnere non c’era, era all’estero. Per lui l’accusa era concorso in corruzione, oltre dieci miliardi di tangenti pagate dalla sua società, la Olivetti, tra il 1988 e il 1991, per piazzare al ministero delle Poste, alle Ferrovie, telescriventi e fax che per di più erano obsoleti, fondi di magazzino. Di lì a tre giorni l’ingegnere si consegnò ai magistrati romani e finì in cella, ma solo per qualche ora perché ottenne subito i domiciliari. Tutto ciò accade pochi mesi dopo che De Benedetti si era presentato da Di Pietro per vuotare il sacco. Era maggio, e i pm milanesi di Mani pulite avevano scoperto le schifezze della Olivetti. Anticipò l’inevitabile chiamata e andò a Palazzo di Giustizia. Raccontò tutto, per filo e per segno, scaricò la colpa giuridica sui suoi manager e si assunse quella politica con un «ma» di troppo.

E cioè: ma eravamo costretti a farlo altrimenti non avremmo lavorato. In pratica si dichiarò concusso. Di Pietro, a differenza di quello che faceva in quegli anni con altri imprenditori (galera), gli diede una pacca sulle spalle e lo rimandò a casa. L’ingiustizia era talmente palese che la Procura di Roma volle vederci chiaro. Perché se uno è concusso una volta passi, ma se lo stesso si fa fregare per tre anni di fila in silenzio, beh, allora la cosa cambia. Così si arrivò all’espropriazione dell’inchiesta e all’ordine di arresto. Come si comportò il professore di etica, quello che vuole giornalisti con la schiena diritta con i potenti? Sono testimone diretto, in quanto il giorno dopo la confessione fiume a Di Pietro, il Corriere della Sera, dove lavoravo, mi spedì a Ivrea, quartier generale della Olivetti, per intervistare l’ingegnere. Pur avendo ricevuto mille raccomandazioni dai miei capi a essere prudente, essendo giovane e illuso pensavo di poter chiedere a De Benedetti ciò che gli italiani volevano sapere. Per esempio perché pochi mesi prima, quando si credeva che l’Olivetti potesse ancora sfangarla, dichiarava spavaldo: «Tangenti? Non ne ho mai pagate». Ma non andò così, perché a quel tempo all’ingegnere i giornalisti schiena diritta non piacevano, almeno non quelli che volevano tenerla di fronte a lui.

Quell’intervista fu un calvario, continuamente interrotta al motto di «ma gli accordi non sono questi». Accordi? Già, l’ingegnere aveva tra gli azionisti del Corriere amici importanti, cosa che simpaticamente non evitò di ricordarmi. Le domande scomode furono limate, le risposte modificate in continuazione. Fui costretto a scrivere sul posto e il testo finale passato al vaglio da decine di mani. Avevo capito che non era aria di fare l’eroe. Lo confesso, alla fine misi di malavoglia la mia firma sotto quel testo, per la felicità di De Benedetti che mi congedò complimentandosi: «Lei è giovane ma è proprio un bravo giornalista, farà strada». Nel mio piccolo un po’ l’ho fatta, ma non con lui né grazie a lui e a quella sciagurata intervista. No, questo gli studenti di Oxford non lo sapranno mai. E non sono al corrente neppure di come il direttore preferito da De Benedetti, lo schiena diritta Eugenio Scalfari, si comportò in quei momenti. Il giorno dell’arresto, prima telefonò furibondo e indignato al capo della procura di Roma, Vittorio Mele: «Ma insomma, l’arresto del presidente di Olivetti le sembra una bazzecola?», poi scrisse il suo editoriale.

Ci sono parole e concetti che il fondatore di La Repubblica ha poi cancellato dal suo vocabolario. Tipo: «Questa volta avvertiamo una vivissima preoccupazione come cittadini per il modo di procedere della procura». E ancora: «Qual è la logica di tutto questo? Forse quella di fare più rumore? Chi lo sa? Chi può negarlo?». E soprattutto: «Perciò stiano con gli occhi ben aperti i procuratori di giustizia, perché il rischio che eseguano senza saperlo vendette su commissione incombe pesante sul loro operato». E L'espresso che scrisse? La notizia della settimana, direi dell’anno, finì in uno strillo di copertina: «De Benedetti a Roma». Detto tutto su come De Benedetti intende «la conoscenza che fa crescere la libertà» elogiata a Oxford. Insomma, i magistrati se sfiorano il tuo editore sono un pericolo, se si accaniscono contro Berlusconi una manna. L’unico giornalista che disse le cose come stavano fu, tanto per cambiare, Indro Montanelli, che su questo giornale scrisse due cose. La prima su De Benedetti: «Che tristezza quest’uomo che s’era proclamato “diverso” dagli altri imprenditori (così come il Pci e il Pds s’erano proclamati diversi dagli altri partiti) e che dai giornali a lui soggetti, l’Espresso e la Repubblica, era stato indicato come modello d’uomo d’affari immune dagli spasimi d’aggancio politico e dalle tentazioni tangentizie cui gli altri esponenti della razza padrona - per usare un termine caro al più autorevole tra i suoi giornalisti, Eugenio Scalfari - erano soggetti».

La seconda sull’editoriale di Scalfari: «Conosco molti furfanti che non fanno i moralisti, ma non conosco

nessun moralista che non sia furfante». Frasi che consigliamo di ripassare a Travaglio, che ama coinvolgere a sproposito nei suoi deliri Indro Montanelli e che ritiene il duo Scalfari-De Benedetti il meglio del Paese.

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