Luca Rocca
Gian Marco Chiocci
Il collezionista di flop. Dopo l’archiviazione dei trenta imputati dell’inchiesta Toghe lucane e lo sgretolamento della costosissima e mastodontica Why Not?, la giustizia italiana registra l’ennesimo fallimento dell’ex pm Luigi De Magistris, eurodeputato dell’Idv ora candidato sindaco di Napoli.
L’ultima disfatta per la toga che da Catanzaro spiccò il volo verso la politica, e che nei processi a suo carico si è avvalso due volte dell’immunità parlamentare (biasimata in pubblico e sfruttata in privato) è stata sancita dal gip di Salerno che ha seppellito la sua denuncia contro quattro magistrati e un carabiniere, responsabili, secondo l’ex pm, della fuga di notizie relativa a una perquisizione nell’ambito di un’altra inchiesta avviata da De Magistris, quella denominata Poseidone, sugli impianti di depurazione in Calabria. Il fatto risale al 2005, quando da sostituto procuratore a Catanzaro l’ex pm si era convinto che il tribunale del capoluogo calabrese fosse un covo di talpe, magistrati corrotti e carabinieri compiacenti. De Magistris era sicuro, assolutamente certo, che l’ex sostituto procuratore generale, Pietro D’Amico, l’ex presidente dell’ufficio gip-gup, Antonio Baudi, l’ex procuratore generale di Catanzaro, Domenico Pudia, l’allora procuratore capo Mariano Lombardi (deceduto poche settimane fa) e infine l’appartenente all’Arma Mario Russo, avessero fatto trapelare la notizia sull’imminente perquisizione a carico di uno degli indagati.
C’era una montagna di prove, a detta di De Magistris. Non era vero niente, ha sentenziato il gip di Salerno, competente sulle cause relative ai magistrati di Catanzaro. Tant’è che il fascicolo su toghe corrotte e talpe in procura è stato cestinato causa «l’insussistenza della notizia di reato».
Il penalista Armando Veneto, difensore di Pudia, parla di «costruzioni fantasiose e fantastiche, operate in un certo periodo da un magistrato della procura della Repubblica di Catanzaro e ora finalmente venute allo scoperto».
Ma questo è solo l’ultimo flop del «delfino ribelle» del leader Idv Tonino Di Pietro. Appena un mese fa, infatti, a crollare è stata l’inchiesta sul presunto comitato d’affari trasversale tra politici, imprenditori e magistrati, conosciuta come Toghe lucane, che ha visto indagati, fra gli altri, due senatori, il governatore della Basilicata Vito De Filippo e alcuni pubblici ministeri.
Anche in questo caso il gip non ha usato mezzi termini nello stroncare le ipotesi accusatorie cavalcate da De Magistris, definendo insostenibile la «fattispecie associativa» che reggeva il «lacunoso» impianto accusatorio, «essendo del tutto carente la prova in ordine all’esistenza di un sodalizio avente le caratteristiche innanzi menzionate». Ma il fiasco dei fiaschi dello sfortunato pm che adesso cerca un riscatto in politica correndo per la successione a Rosa Russo Iervolino, è quello dell’inchiesta Why Not su una presunta lobby del malaffare calabrese che includeva politici corrotti, imprenditori affamati di soldi, massoneria occulta, le solite toghe colluse e gli immancabili servizi deviati.
Dall’indagine che ha fatto da trampolino di lancio alla carriera politica di De Magistris, ne sono usciti assolti, un anno fa, buona parte degli imputati che avevano chiesto il rito abbreviato e gli ex governatori calabresi Agazio Loiero e Giuseppe Chiaravalloti (prosciolto), mentre la condanna è stata comminata solo a otto imputati e il rinvio a giudizio ha riguardato meno della metà degli altri indagati.
Il costo per l’erario è da capogiro: decine di milioni di euro (9 solo in consulenze). Ma anche quello umano è da brividi, con 150 persone indagate e sputtanate a mezzo stampa, a fronte delle 34 rinviate a giudizio e 26 assolte.
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