A De Niro il passaporto italiano: «È come essere tornato a casa»

La star del «Padrino» ha mostrato un assaggio di «The Good Shepherd», il film sulla storia della Cia, nelle sale da dicembre

Cinzia Romani

da Roma

Mentre l'Italia discute sul riassetto dei servizi segreti, Robert De Niro si materializza all'Auditorium, usando la storia della Cia come un accessorio scenico. Il che può fare soltanto chi, come il grande interprete di film che fanno parte della nostra quinta mentale, incarna il senso della parola «sprezzatura». Sa troppo del mondo e delle cose, Bob, ieri sul palco come un impiegato del catasto (giacca blu, camicia aperta sul collo, pantaloni inesorabilmente grigi), persino infastidito, a tratti, dall'atmosfera di provinciale reverenza che lo avvolgeva come un sudario, per prendere qualcosa sul serio. Figurarsi un «incontro» col pubblico, che era poi l'offertorio laico del suo corpo di star. E chi gli ha portato in regalo una bottiglia di'Amaro Corleone, in nome di Don Vito, suo memorabile protagonista de Il padrino; e chi la moglie, per un bacio, un bacio almeno, visto che da venticinque anni il povero marito cornuto per un sogno dello schermo veniva costretto a condividere il coniungo con lui; e chi implorava un ingaggio come attrice... bene ha fatto, Toro scatenato, a mostrarsi in fiera per quel che è: un artista di grandissima razza, che non molla l'ironico ghigno da «dici a me? Dici proprio a me?». L'attore preferito da Scorsese ieri ha chiuso in bellezza la Festa di Roma, promuovendo, in anteprima mondiale, il suo film The Good Shepherd («Il buon pastore», ma i distributori della pellicola, gli uomini Medusa, non tradurranno così il titolo), attualmente in fase di montaggio. «È un progetto che rincorro da sette anni, da quando lo sceneggiatore Eric Roth mi propose una rivisitazione del suo libro sulla genesi della Cia, con una storia che parte dallo sbarco americano a Cuba, nel 1961, e finisce con la caduta del Muro di Berlino e il termine della Guerra fredda. È un film difficile, con molti personaggi, che vanno presentati. Il montaggio è davvero impegnativo», spiega De Niro, che a dicembre manderà la sua creatura su piazza Usa, mentre in Italia dovremmo vederla tra febbraio e marzo, Festival di Berlino permettendo.
Ispirandosi alla vita di James Angelton, geniale e discusso boss della Cia, The Good Shepherd, dove De Niro è regista e interprete, narra l'ascesa di Edward Wilson (un Matt Damon più convincente che mai nel ruolo dello spione tradito, uno che non esita a calarsi nella piscina di fango preparatagli dai confratelli della setta più elitaria d'America, come iniziazione) verso le stanze del potere. «Tutti hanno qualcosa. Gli ebrei la loro religione, gli irlandesi, la patria, persino i negri hanno la musica e voi, voi americani, che cosa avete?», chiede a Wilson un ingenuo. «Noi abbiamo gli Stati Uniti d'America: voi siete solo di passaggio» è la risposta.
Nel cast d'una produzione da oltre cento milioni di dollari figurano Angelina Jolie, qui sposa trascurata; Alec Baldwin, agente che deve informare e disinforma e lui, Robert, occhialini tondi alla Sigmund Freud, sempre alla ricerca di gente giusta, di cui fidarsi. E diffidente, perlomeno delle domande un po' ingessate e generiche rivoltegli da Mario Sesti e da Vincenzo Mollica, De Niro lo è parso anche in Sala Petrassi, mentre in platea lo scrutavano Cesare Paciotti e Stefania Sandrelli, il conte Giovannelli e altri paravip in visibilio. «Come faccio a commentare? Sono passati tanti anni, non posso distinguere quel che ho improvvisato», dice la star newyorchese, il cui Tribeca Festival è ora gemellato con la Festa di Roma, a proposito d'una clip di Taxi driver, mostrata come spunto di conversazione. Né va meglio quando «passa» la scena di Toro scatenato in cui il suo pugile Jack La Motta viene suonato da Sugar Ray. «Se credo nell'identificazione, nel prendere peso per calarmi in un ruolo? Il discorso dell'identificazione è ancora valido», afferma lapidario. E il bello è che il pubblico capisce e sente e condivide la ritrosia di Bob: troppo grande per stare nei ranghi del ping pong scena/commento.

Ieri gli è stato consegnato, oltre al premio «Steps and Stars», il passaporto italiano (giù applausi), a proposito del quale cala la sentenza: «È un cerchio che si chiude, il destino della mia famiglia si compie: posso dire d'essere tornato a casa, non vedo l'ora di mostrare il passaporto ai miei figli». Noi mortali non vediamo l'ora di ritrovare questo dio del cinema sul grande schermo, l'Olimpo dell'apparenza.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica