«A quel regime non si può consentire di avere la bomba atomica». La frase del capo di stato maggiore israeliano generale Gabi Ashkenazi risuona durante l'incontro a Roma con un ristretto gruppo di giornalisti e svela diverse verità. La più evidente è che la messa fuori gioco della cerchia più radicale del regime di Teheran renderebbe più gestibile la questione nucleare. Un cambio di regime garantirebbe un Iran non proteso alla creazione di un nuovo ordine mediorientale. Un Iran con cui, una volta risolta la questione "atomica", Israele potrebbe persino - preconizzava il presidente egiziano Hosni Mubarak in un intervista ad una tv israeliana - «avere rapporti pacifici».
L'enfasi con cui il 56enne Ashkenazi pronuncia le parole «quel regime» fa intravvedere anche altre possibilità. Se i puri e duri di Teheran sono il vero problema allora un raid israeliano potrebbe puntare non solo a distruggere i siti nucleari, ma anche a decapitare il regime. Il generale si guarda bene dal discuterne, ma esamina con preoccupazione la complessa linea del fronte gestita da Teheran. La punta di lancia del dispositivo è al confine libanese. Lì la macchina da guerra di Hezbollah - rigenerata negli ultimi 4 anni - è nuovamente in grado di colpire in profondità Israele grazie a oltre 40mila missili e razzi occultati nel cuore di 160 villaggi sciiti. Hezbollah si giova delle restrizioni Onu che impediscono ai caschi Blu dell'Unifil («nonostante la fondamentale partecipazione italiana») di operare all'interno dei centri abitati. Restrizioni che «l'Onu si è rifiutato fin qui di eliminare». Se la prima linea libanese permette agli iraniani di tener sotto tiro le città israeliane, quella di Gaza non è meno importante. La Striscia e Hamas sono oggi un monopolio iraniano rifornito con i carichi di armi in arrivo attraverso Sudan, Sinai e tunnel di Rafah. E la Cisgiordania, spiega il capo di stato maggiore, potrebbe in caso di ritiro israeliano fare la stessa fine di Gaza cadendo sotto i colpi di Hamas.
Dunque Israele deve esser pronto a gestire un'eventuale involuzione seguendo passo dopo passo la corsa al nucleare di Teheran. Quella linea rossa costituisce il punto di non ritorno non soltanto per Israele, ma anche per molti Paesi sunniti come l'Egitto, l'Arabia Saudita e gli Emirati, minacciati dalla voglia di potenza della nazione sciita. Il problema vero è dunque arrestare la corsa di Teheran. Le sanzioni rischiano di rivelarsi un deterrente «troppo lento» per consentire «un cambio di regime interno» e «troppo leggero» per mettere in ginocchio il regime. Una soluzione potrebbe però passare per Damasco. Riportare alla trattativa Bashir Assad, garantirgli aiuti economici, spezzare la sua dipendenza economica da Teheran offrendogli in termini di sicurezza la possibilità di sopravvivere ad eventuali insurrezioni interne potrebbe essere la chiave per spezzare l'asse Teheran-Damasco. Resta da capire chi possa farlo.
«Decapitare il regime di Teheran prima che arrivi allatomica»
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