Una decrescita serena in stile Latouche? Sì, per tornare barbari...

Un tratto caratteristico di larga parte della cultura politica moderna è il disprezzo verso la civiltà: basti pensare a Jean-Jacques Rousseau e alla sua idealizzazione dei selvaggi. Qualcosa di simile si ritrova in Serge Latouche, che non a caso trova adepti a ogni estremità dello schieramento politico-culturale e di cui Bollati Boringhieri pubblica oggi L’invenzione dell’economia (titolo già uscito nel 2005 da Arianna editrice, nel cui catalogo compaiono, non a caso, vari testi di Alain de Benoist).
Nella riflessione di Latouche sono assemblati materiali diversi, dall’ecologismo al feticismo della merce di marxiana memoria, dall’uomo unidimensionale di Herbert Marcuse fino al localismo. Il risultato è che viene vagheggiata un’umanità che prenda la strada della decrescita, rinunciando ai frutti del lavoro e della creatività, e nemmeno vi è il sospetto che, se tale idea fosse accolta, larga parte del genere umano scomparirebbe. Per nutrire e curare quanti popolano la terra c’è infatti necessità dei benefici derivanti da quell’integrazione economica che Latouche tanto disprezza.
Le cose sono anche più drammatiche, perché perfino una limitata crisi economica può significare la morte di molti. Ma di questo Latouche non si preoccupa. Non è un caso, come ha sottolineato anche Federico Rampini, se l’ecologismo ha successo nella classe medio-alta e non certo nel ceto operaio: in fondo, di tratta dell’ideologia snobistica e irresponsabile di chi non ha problemi e non vuole averne. È la filosofia, per dirla con José Ortega y Gasset, del «signorino soddisfatto».
Quando parla dell’Africa, così, Latouche sostiene che sarebbe una violenza se quelle popolazioni adottassero la nostra razionalità e le nostre tecnologie, poiché a suo dire tutto ciò produrrebbe solo sofferenze. Da qui la proposta di economie chiuse, che tengano gli africani al riparo da ogni inquinamento culturale. Non si sogna nemmeno di riconoscere a ogni singolo africano la facoltà di scegliere se restare animista o convertirsi in qualcosa d’altro, vivere trent’anni da cacciatore o settanta da medico o da imprenditore.
Come molti altri retori che vanno per la maggiore, egli accusa il capitalismo di distruggere risorse poiché ignora che la crescita dei consumi è stata accompagnata da un ben maggiore aumento dei beni a nostra disposizione, che sono divenuti tali soltanto grazie all’inventiva umana. Nel suo materialismo, ritiene che le risorse siano un «dato», e non già il frutto di uomini ingegnosi. E quindi invita a tirare il freno a mano.
Anche se detesta le socialdemocrazie, in cui welfare e alta tassazione convivono con imprese private e profitti capitalistici, il suo disprezzo maggiore è per il mercato, di cui ha però una conoscenza molto superficiale. Ai suoi occhi esso coincide con la teoria economica dominante, che è però tutt’altro che liberale. Il risultato è che egli mette nello stesso sacco realtà tra loro diversissime, inconsapevole che (da John Locke a oggi) il liberalismo più coerente non ha nulla a che fare con l’utilitarismo, ma si basa invece su un’affermazione netta dei diritti di proprietà quali diritti naturali. D’altra parte, per lui una società libera non è una rete di rapporti volontari, ma una megamacchina proiettata a realizzare obiettivi propri.
Per questa ragione, i sistemi economici basati sulla concorrenza gli appaiono dominati da una forza oscura, da una spinta inarrestabile verso la massimizzazione delle ricchezze e, alla fine, da un’omogeneizzazione degli stili di vita. Che l’ordine liberale sia solo una cornice giuridica entro cui possono trovare spazio gli amish della Pennsylvania, gli evangelici texani e i liberal della East-Coast è qualcosa che non riesce a vedere. Quando rappresenta il mondo occidentale come dominato dal mercato, semplicemente ci comunica la sua percezione (deformata) della realtà. E se anche una miriade di poteri statali interferisce con le scelte delle imprese e dei consumatori, Latouche è lungi dall’essere soddisfatto e chiede di più. Una cosa è sicura: Latouche non ama la libertà individuale né gli esseri umani in carne e ossa, che consumano, producono e si riproducono. La sua proposta consiste nel «vivere meno», sposando pure la proposta di Jacques Ellul, che suggeriva di lavorare non più di due ore al giorno. In questo senso non è sorprendente che egli trovi del tutto legittimo che un funzionario di Stato possa intromettersi tra me e Amazon, Google o qualsiasi altra multinazionale interessata a offrimi servizi.
Quando poi attacca l’economia in quanto tale, vedendo in essa una scienza incapace di riconoscere il senso del limite, non coglie la questione cruciale: e cioè che l’uomo è per sua natura portato a elaborare il mondo, cambiare stile di vita, superare le colonne di Ercole. Se non siamo fatti per «vivere come bruti» non sarà il professor Latouche a farci cambiare. Quella che egli prospetta è un’utopia regressiva che implica muscolosi apparati amministrativi, occhiuti ufficiali delle imposte, spietati dispositivi polizieschi. Non si limita a parlare agli uccelli del campo e a proporre meno docce, viaggi o Tac. La sua non è un’Arcadia per chi vuole starci: poiché in quel caso sarebbe un progetto bislacco, ma innocuo, e compatibile con una società liberale. Al contrario, la società della decrescita può avere una qualche possibilità di realizzazione solo facendo ricorso alla coazione dei sistemi pubblici, chiamati a spazzar via le libertà capitalistiche. Non a caso, egli vede nei regimi più dispotici dell’America latina di oggi autentiche ragioni di speranza.
A questo punto, davvero importa molto poco che il suo collettivismo sia etichettabile come socialista, reazionario, primitivista o altro ancora.

Quel che conta è che intende negarci la facoltà di agire quali uomini liberi e soggetti creativi. In questo senso si tratta davvero di disegno di de-umanizzazione, poiché non è più davvero vita quella degli esseri decerebrati che quel tipo di pianificazione vorrebbe imporci.

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