Cè uno scontro tra magistrati, una diversità di opinioni che produce una sorta di anacoluto giudiziario, dietro la sentenza che ieri pomeriggio condanna allennesimo ergastolo Totò Riina, il «Capo dei capi» di Cosa Nostra. Per la prima volta nella sua lunga carriera da imputato, Riina viene condannato per un delitto commesso a Milano: ed è un delitto che si perde nelle nebbie del secolo scorso, quando sotto la Madonnina si consumò un capitolo delle guerre di mafia che insanguinavano la Sicilia. Alfio Trovato, gangster catanese, venne ammazzato nel 92 in via Palmanova, vicino alla bisca a cielo aperto che era uno dei punti più vistosi di ritrovo della malavita organizzata. La Corte dassise - presieduta da Anna Introini - accoglie in pieno le tesi del pubblico ministero Marcello Musso e sancisce l'attendibilità dei «pentiti» che chiamavano in causa Riina come mandante di quellomicidio. Ma la sentenza di ieri va in direzione opposta alle decisioni di altri giudici che nei mesi scorsi avevano ritenuto inconsistenti le dichiarazioni dei medesimi collaboratori di giustizia, rifiutando larresto degli indagati e mandando assolti gli imputati di altri delitti.
Secondo le testimonianze raccolte dal pm Musso, a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta a Milano si consumò una sorta di repulisti dei dissenzienti. Mafiosi e malavitosi che si erano in vari modi frapposti al disegno di egemonia di Riina e dei corleonesi vennero fatti fuori senza tanti complimenti. Toccò - dicono ai pentiti - a Trovato. Ma stessa sorte venne riservata al boss di Resuttana Gaetano Carollo, a Carmelo Tosto, a Vincenzo De Benedetto. Chiunque, in Sicilia o in Lombardia, si frapponeva al potere dei clan vincenti doveva morire.
Alla ricostruzione di quella stagione il pm Musso ha lavorato a lungo, muovendosi su un terreno delicato, in cui si incrociano esigenze di giustizia e tutela degli imputati. E dove la valutazione della attendibilità dei pentiti e la necessità di riscontri gioca un ruolo decisivo.
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