Democratici fra liti e veti, Bersani sembra già Prodi

Chiamatela sindrome ulivista, maledizione prodiana o saudade sinistrorsa: fatto sta che lo strano morbo sta divorando persino il coriaceo capo del Pd Pierluigi Bersani. Il quale, c’è da capirlo, ha così tanti grattacapi da subire una preoccupante metamorfosi

Democratici fra liti e veti, Bersani sembra già Prodi

Roma Chiamatela sindrome ulivista, maledizione prodiana o saudade sinistrorsa: fatto sta che lo strano morbo sta divorando persino il coriaceo capo del Pd Pierluigi Bersani. Il quale, c’è da capirlo, ha così tanti grattacapi da subire una preoccupante metamorfosi. L’ultima spina che gli si è conficcata nel fianco si chiama sondaggio: secondo una recente analisi dell’Ipr marketing per Repubblica, il suo Pd starebbe subendo ancora una paurosa emorragia di consensi. I dati: risaliti al 41 per cento, i democratici sono ora ripiombati al 37, contro una «fiducia stabile» nei confronti del governo e del premier Berlusconi.
C’è poco da ridere ma l’emiliano col toscano in bocca ha sempre abituato tutti a benevoli sorrisi, pur essendo posato e serio. Ma i suoi sorrisi sono spariti. Figlio di un benzinaio, laurea in filosofia con tesi su Papa Gregorio Magno, le ossa politiche formate nel vecchio Pci, Bersani ha sempre scherzato volentieri, anche su se stesso. «Io candidato a segretario a 57 anni? Sono un giovane di lungo corso», disse il giorno della sua discesa in campo per salvare il Pd dalle pesti. Ora non scherza più. Tradizionalmente schietto, lontano mille miglia dalla gommosità melliflua di un Prodi, il leader piddino adesso sembra ricalcarne pure i tratti somatici, tramutandosi in un Romano Bersani. Prima parlava, ora bofonchia; prima precisava, ora istruisce; prima chiariva, ora s’incarta. Sembra quasi abbia imparato a inforcare e togliersi gli occhiali alla maniera dell’ex premier ulivista.
Così come il pacioccoso e soporifero Professore ha sempre cercato di vivacchiare, stretto tra i Bertinotti e i D’Alema prima e i Mastella e i Turigliatto poi, Bersani oggi si ritrova impantanato tra i Rutelli e i Di Pietro e tra le Binetti e le Concia. Pure lui condannato a tribolare per tenere insieme capra e cavoli, ha avuto mandato pieno per accantonare il veltronismo. «Riuscirò a unire i valori cattolico-popolari con quelli del socialismo democratico e della socialdemocrazia», aveva giurato prima del suo insediamento. Invece ha perso per strada il cofondatore del Pd, Rutelli. «Saremo sintesi tra laici e cattolici», aveva sempre assicurato. Invece, candidando la Bonino nel Lazio, ha spinto Carra e Lusetti tra le braccia dell’Udc. «Basta con l’antiberlusconismo spinto e pericoloso», aveva ammonito dopo l’aggressione a Berlusconi in piazza Duomo ed era volato a Milano a stringere la mano all’aggredito. Invece la sua Bindi ha rincarato la dose attaccando il premier. «Con Di Pietro ci sono punti di divergenza anche acuti», aveva ammesso motivando la scelta di disertare la piazza del popolo viola. Invece in strada, a braccetto dell’ex pm, sono subito scesi sia la Bindi che Franceschini.
Prodianamente, Bersani inizia a sbuffare e tergiversare anche sul tema riforme & giustizia. La sua posizione in merito è tanto ciondolante da ricordare la celebre parodia del Professore fatta da Guzzanti: «E io fermo... Come un semaforo...». Insomma, il Pd è disposto al dialogo sulle riforme sì o no? Il suo capo aveva anche provato a spingere il suo partito al tavolo della discussione con la maggioranza perché «sono uno che accetta le sfide». E poi: «Siamo pronti a discutere e a portare avanti un discorso di sistema in grado di rileggere i rapporti tra governo, Parlamento e magistratura». Salvo poi, la frase dopo, tirarsi indietro e piantare decine e decine di paletti, forzato dalle correnti più radicali del suo partito: no immunità, no processo breve, no Lodo Alfano bis. No, no, no, ma forse sì.
Così è obbligato a barcamenarsi, a non decidere, a oscillare tra il «parliamoci» e il «mandiamoci al diavolo», a smussare le aperture offerte un minuto prima. Se un big come il senatore Nicola Latorre parla di «disarmo bilaterale» perché le «riforme vanno fatte insieme nell’interesse del Paese», ecco che parte subito il fuoco di fila interno ed esterno (Repubblica in primis): «No agli inciuci».

Vittima dell’eterno scontro tra dalemiani e veltroniani, più simile alla zuffa di una riunione di condominio, il segretario se messo alle strette sbuffa, sospira, ansima e cincischia. Proprio come se fosse un, soporifero, Prodi qualsiasi: «Non siamo una caserma, siamo un partito plurale e rispetto alla linea ci sono tutte le variazioni sul tema, a seconda delle sensibilità».

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