Alessandro Campi
Per fare buona politica occorrono idee. Ma non basta invocarle, bisogna anche averle, possibilmente di originali. E la idee, si sa, sono merce rara. Non vengono a richiesta o solo perché ci si spreme le tempie nel chiuso di una stanza. Viviamo un tempo culturalmente arido, che si accontenta di rimasticature, a destra come a sinistra. Ma perché prendersela innanzitutto con il Secolo d’Italia? L’articolo di Stenio Solinas sul Giornale di sabato solleva problemi reali quando parla di una destra politica che vive alla giornata, che è culturalmente in affanno e che in un quindicennio non si è ancora data una coerente strategia di pensiero, ma appare ingeneroso e a tratti inutilmente polemico quando getta la croce addosso a una minoranza ai suoi occhi troppo creativa ed eccentrica.
Scrittore raffinato e fuori dal coro, Solinas ammette anch’egli l’importanza delle contaminazioni intellettuali e degli intrecci tra famiglie e tradizioni ideologiche, come necessario antidoto alla sclerosi culturale contemporanea. Ma poi giudica i redattori del quotidiano di Alleanza nazionale, che più di altri si divertono a sparigliare le appartenenze consolidate, come afflitti da una forma di schizofrenia mentale: non avendo più un’identità, come i loro referenti politici, costoro avrebbero deciso di cambiarsi d’abito ogni santo giorno, pescando ovunque nel mare magnum delle tante culture politiche offerte ormai a prezzi di saldo. Quel che è peggio, li considera dei furbetti in cerca di facile notorietà: se vuoi apparire à la page e sei però uno sfigato di destra, senza storia e senza futuro, non ti resta che rendere omaggio, alternativamente, a Nanni Moretti o Vasco Rossi, e aspettare che qualcuno l’indomani gridi allo scandalo o all’appropriazione indebita. Troppo facile, dice Solinas, essere di destra vivendo di rendita sui miti e sulle icone della sinistra. Se non hai più idee in proprio che te ne fai di quelle altrui prese momentaneamente in prestito?
Ammetto che questo gioco, fatto di ibridazioni e scippi, di innesti arditi e riletture provocatorie, si presta troppo facilmente al gossip culturale e lascia spesso il tempo che trova. Convengo che prendere troppo sul serio Goldrake, Corto Maltese, Moana Pozzi e Che Guevara implica per la destra il rischio di un mortale divorzio dalla storia (la propria innanzitutto) e dalla realtà, che restano il fondamento oggettivo della politica. Ma perché la destra che scopre Chatwin o Pasolini risulta cialtrona e inaffidabile mentre la sinistra che fagocita Schmitt e Celine appare originale e problematica? Perché la sinistra che si muove a proprio agio nei labirinti della cultura di massa fa semiologia chic e la destra che prova a navigare nei meandri nell’immaginario contemporaneo suscita solo scherno e disappunto?
Il fatto è che in questo gioco teso a rimescolare le carte, a creare cortocircuiti virtuosi tra le diverse famiglie culturali, non c’è solo calcolo, opportunismo o peggio leggerezza mentale, c’è anche, per come io la vedo, una precisa e assai seria scelta metodologica: finite le ideologie sistematiche, che erano recinti esistenziali prima che intellettuali, siamo finalmente liberi di pescare e utilizzare le idee che più ci aggradano, senza dover più pagare diritti d’autore o di primogenitura. La cultura contemporanea, rotti gli argini e smesse le casacche d'ordinanza, è appunto bricolage, scomposizione, sparigliamento, contaminazione tra destra e sinistra, alto e basso, serio e faceto, vecchio e nuovo, intrattenimento e approfondimento. È la post-modernità, bellezza! Ma è anche la lezione, la più estrema e attuale, di quel secolo straordinario che è stato il Novecento.
Tutt’altro discorso - assai più centrato - è invece la critica al silenzio e al conformismo degli intellettuali cosiddetti d’area, che hanno smesso di esercitare il loro spirito critico per troppa deferenza nei confronti di un potere che al dunque nemmeno li ascolta e forse persino li disprezza, che in tutti questi anni si sono troppo comodamente adagiati nella predicazione del verbo liberal-liberista senza mai porsi un dubbio o un interrogativo (salvo scoprirsi alla fine della corsa critici del «mercatismo», nostalgici dello Stato e seguaci del sempreverde «Dio, patria e famiglia»). La destra, dice ancora Solinas, della cultura non sa che farsene, nella convinzione che per trionfare le basti il carisma di un uomo. Illusione pericolosa, che si rischia di pagare a caro prezzo sul lungo periodo. Gli intellettuali sono muti e prudenti, la politica è sorda e arrogante, oramai uniti gli uni e l’altra solo dalla retorica del pragmatismo e dall’orizzonte della post-ideologia. Ecco spiegato il mistero di un centrodestra che continua a vincere senza convincere, che è maggioranza politica ormai stabile ma eterna minoranza culturale, che anche quando decide per il meglio (vedi il caso recente dei provvedimenti della Gelmini sulla scuola e sull’università) non riesce tuttavia a far valere le sue ragioni nel dibattito pubblico.
Un’analisi spietata, ma realistica e veritiera, che ancora una volta chiama in causa - e sembrerebbe una fissazione - soprattutto la destra di matrice missina. Storicamente estranea al managerialismo che nutre Forza Italia sin dalle sue origini, consapevole più dei suoi alleati del ruolo che hanno le idee nel sedimentare il consenso e nel forgiare la mentalità collettività, essa avrebbe dovuto e potuto porre un argine culturale all’idolatria del mercato alimentata dal berlusconismo, all’equivoco di una politica ridotta a calcolo economico e marketing elettorale. Ma non avendo risolto i propri conti con il fascismo, avendo abbracciato a sua volta la mistica della «cultura del fare», non le è rimasto al dunque che il gioco salottiero, politicamente innocuo, degli ammiccamenti e dei ripescaggi nel campo altrui, in attesa di sparire dall’orizzonte della storia e di sperdersi, come adesso sta appunto avvenendo, nel calderone del Popolo della libertà.
Anche in questo caso Solinas appare ingeneroso e, quel che è peggio, autoassolutorio. Se è vero che sulle colpe e miserie della destra politica-partitica (leggi Alleanza nazionale) si potrebbe scrivere un’enciclopedia, è anche vero, infatti, che a dare il peggio di sé in questi anni sono stati soprattutto gli uomini di pensiero vicini per formazione a quel mondo, che mai per una volta hanno pensato di mettersi seriamente in gioco rispetto alle loro certezze di un tempo o di battere strade nuove. Critiche tante, parecchi insulti, ma poche nuove idee e nessuna proposta. In questo caotico e infelice quindicennio, una certa destra politica ha provato, magari maldestramente, a liberarsi dal peso del passato, ha tentato qualche sortita inedita in materia di diritti civili, di cittadinanza, di immigrazione, di Islam, di sicurezza, di bioetica, di politica estera, di etica pubblica, s’è posta il problema di cambiare e di crescere, di essere all’altezza delle nuove sfide storiche, di «dire qualcosa di destra» senza guardare al Ventennio o alle «vecchie zie» di longanesiana memoria e senza nemmeno inseguire mode intellettuali forestiere ed effimere (neocon, teocon ecc.), ma ogni volta è stata derisa e sbeffeggiata dai propri intellettuali di riferimento, convinti di saperla lunga, sempre pronti a gridare al tradimento degli ideali, guardiani di una purezza ideologica nella quale soltanto loro ormai credono.
La cultura serve se guarda avanti e se apre piste nuove, che nella sua autonomia la politica può poi scegliere di battere o di ignorare. Il Secolo d’Italia è un giornaletto corsaro, costantemente in affanno finanziario, ma oggi assai vivace e irriguardoso. Incarna, magari in modo ingenuo, una destra che non vuole piegarsi allo stereotipo (che la sinistra ha costruito e che certa destra fa di tutto per assecondare) che la vorrebbe sempre arrabbiata, biliosa, oltranzista e urlante, ora reazionaria e codina, ora qualunquista e volgare, sempre all’opposizione del mondo, sempre in ritardo sulla storia. Strano che proprio a Solinas, spirito aristocratico e amante dell’avventura, intellettuale assai curioso e irriverente, questo sforzo teso a uscire dalla gabbia delle ideologie e del conformismo appaia come del tutto inutile, addirittura schizofrenico e parossistico.
E chiarito che questa destra politico-culturale, ondivaga e bulimica, stracciona nella sua ansia di modernizzazione e nella sua ricerca di interlocuzione e consenso, gli procura orrore e fastidio, potrebbe dirci per una volta quali altre strade essa dovrebbe imboccare per risultare ai suoi occhi finalmente seria e rigorosa, non più nostalgica, non più subalterna alla sinistra, non più berlusconiana?- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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