Viviana Persiani
Non è necessario, per i grandi autori, scrivere con le intenzioni di declamare il proprio lavoro sulla scena di un teatro; spesso capita che le parole geniali di certe abili penne nascano proprio con l'urgenza intrinseca di diventare suono, di divenire tenera poesia e nel contempo la disperazione di un urlo. «Diario di un pazzo» di Nikolaj Gogol, in scena al Teatro Libero fino al 18, è un esempio di come un racconto possa trasformarsi in un espressivo monologo da palcoscenico. Il regista Lino Spadaro, avvalendosi della traduzione di Tommaso Landolfi, ha trasposto sul palcoscenico il diario di un classico autore e del suo viaggio attraverso la malattia mentale. «Si tratta di una ripresa che ogni volta però richiama una folta platea - racconta Spadaro che da tempo collabora con la compagnia I Fratellini -: sono contento nel vedere che questo spettacolo, nel corso degli anni, non abbia ancora esaurito il suo fascino».
Come mai, visto anche l'autore poco frequentato dai teatri?
«Gogol è pur sempre un classico della letteratura russa, anche se credo che calamitante sia il titolo dello spettacolo. Lo spettatore di oggi è incuriosito dalla tematica, molto attuale, della malattia mentale. È, in effetti un lavoro intrigante che accompagna il pubblico nelle pieghe della schizofrenia».
Come mai questa malattia?
«Il protagonista Popriscin lavora come un comune impiegato, con la sola responsabilità di temperare le matite del suo capufficio. Ma l'amore per la figlia di questo suo superiore e l'impossibilità di accedere alla sua "casta", accompagnata da uninvidia tipicamente piccolo borghese per i cosiddetti "nobili" e per i loro agi, lo portano ad uno smarrimento e a una perdita della propria identità».
Qual è il suo destino?
«Si allontana dal mondo, prendendo le dovute distanze dai sogni verso i quali è sempre stato proteso. Un po' come capita oggi: siamo sempre affannosamente alla rincorsa di quelle cose che potrebbero soddisfarci e le difficoltà, gli ostacoli che si incontrano sono motivo di malumori, delusioni, depressioni. Ecco che l'impiegato, dopo una delirante invasione della casa della sua innamorata nei panni del re di Spagna, si rinchiude in se stesso, solo, senza nemmeno più il suo riferimento tanto caro, Puskin, morto poco prima».
Il testo è stato ritoccato?
«A parte qualche taglio, l'omissione di coordinate topografiche come il nome di vie o di zone, poco importanti per una messinscena italiana, abbiamo conservato il testo originale. La traduzione, vantando di invenzioni linguistiche interessanti e suggestive, è stato un supporto straordinario, soprattutto per Dario Cantarelli che, solo sulla scena, in prima persona, declama il racconto come fosse un monologo autobiografico».
Qual è stata la sua operazione?
«Ho effettuato un lavoro sull'interpretazione di Cantarelli che accentra l'attenzione dello spettatore su di sé.
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