Dietro al delitto del carcere c’era il boss della ’ndrangheta

Ergastolo per il cao del 1990. L'educatore penitenziario Mormile fu ucciso da un commando armato. Ieri la sentenza: il mandante è Domenico Papalia

Umberto Mormile, educatore penitenziario in servizio al carcere di Opera, venne assassinato l’11 aprile 1990. Intorno a quel delitto si è scavato per anni, in un nugolo di piste e di rivendicazioni più o meno fasulle, dove ipotesi terroriste si mischiavano a storie di corruzione, di commistioni tra Stato e crimine, di apparati deviati.
Ieri sera viene condannato all’ergastolo l’uomo che per la Procura fu il mandante di quell’omicidio: e si tratta nientemeno che di Domenico Papalia, calabrese di Platì, considerato dagli inquirenti - nonostante sia in carcere da trent’anni - il Capo dei capi della ’ndrangheta in Lombardia, il boss in grado di ordinare dalla cella delitti, alleanze, strategie. Ma per arrivare alla condanna di Papalia si è dovuto scavare in modo impietoso sulla figura della vittima. Chi era davvero Umberto Mormile, e perché venne ammazzato? Domande che hanno portato a scavare ancora più a ritroso, in uno dei capitoli più singolari della storia carceraria italiana. Perché la traccia decisiva - secondo l’inchiesta del pubblico ministero Alberto Nobili - risale fino alla fine degli anni Ottanta, quando nel carcere di Parma a dettare legge non era lo Stato ma il gruppo di detenuti eccellenti che in quella prigione erano rinchiusi. Tutti i protagonisti di questa storia si incrociano allora nel carcere di Parma. Lì lavora Mormile, ex secondino divenuto educatore. Lì lavora Armida Miserere, vicedirettrice e compagna di Mormile. Lì è rinchiuso Domenico Papalia. È già condannato all’ergastolo per un vecchio delitto, ma fa quel che vuole: permessi a volontà, la possibilità di lavorare fuori dal carcere. «A dirigere di fatto il carcere di Parma - raccontano diversi testimoni - era un gruppo di reclusi tra cui "Mico" Papalia». Quando lo scandalo viene a galla, i protagonisti vengono allontanati da Parma. Papalia finisce a Opera. E lì si ritrova con Mormile. Cosa accada a quel punto neanche la requisitoria del pm Nobili è riuscito a stabilirlo con certezza. Al boss vengono sospesi tutti i permessi, tutti i benefici carcerari. Papalia va su tutte le furie. E, dice l’accusa, se la prende con Mormile. Perché? Dai tanti pentiti interrogati nel corso delle indagini sono arrivate versioni diverse. Chi dice che Mormile fosse a libro paga di Papalia dai tempi di Parma, e che dopo lo scandalo si fosse tirato indietro. Chi dice che anche ad Opera si fosse fatto dare trenta milioni in cambio di favori mai concessi. Chi dice che i trenta milioni li avesse presi e poi restituiti. Sta di fatto che poco prima delle otto del mattino dell’11 aprile 1990 Umberto Mormile appariva assolutamente tranquillo. Salì sulla sua Alfa 33 e si avviò verso il carcere di Opera. Mentre era in colonna, all’altezza di Carpiano, una Honda 600 affiancò l’Alfa. L’ultima cosa che Mormile vide in vita sua fu la canna della 38 special che si avvicinava al finestrino. Oggi sappiamo che a guidare la moto era Nino Cuzzola, e a sparare Tonino Schettini, il pizzaiolo di Portici divenuto il più sanguinario dei killer agli ordini della ’ndrangheta al nord. La sentenza di ieri dice che l’ordine di sparare era partito dalla cella di Mico Papalia ad Opera, portato all’esterno da suo fratello Antonio e consegnato al commando. Ma la pista di sangue non si fermò lì.

Perché Armida Miserere, la compagna di Mormile, le tracce di quella tragedia se le portò dietro per molti anni. E la foto di Mormile era sul comodino di Armida anche la mattina del 19 aprile 2003, nel suo alloggio al carcere di Sulmona, quando la direttrice si fece saltare la testa con la pistola di servizio.

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