Milano - Gli esperti sono convinti che l’acquisizione-record nel mondo della birra si farà: «Se Inbev si è mossa, è per vincere». Inbev, belga, prima birreria del mondo, qualche giorno fa ha lanciato un’offerta da 46,3 miliardi di dollari sul leader americano del settore e terzo nel mondo, Anheuser-Busch. Dicono di più i marchi: l’offerente «significa» Stella Artois e Beck’s; la preda è Budweiser. Il cda di Anheuser valuterà «scrupolosamente»; per Carlos Brito (presidente di Inbev) quella di 65 dollari ad azione è «un’offerta equa», e l’obiettivo è di chiudere «amichevolmente». Budweiser per ora non si è pronunciata ma sta tentando di acquisire l’intero pacchetto della messicana Modelo (marchio Corona) di cui possiede già il 50%; lo scopo è di mettere in difficoltà il compratore rendendo il boccone troppo grosso. Brito non si è fatto intimidire e ha confermato l’offerta. Se l’operazione si farà, Inbev rafforzerà il suo primato, staccando di molte lunghezze gli altri due gruppi mondiali, SabMiller (Sud Africa) e Heineken (Olanda).
Negli Stati Uniti l’offerta, al di là dei tonici effetti sul titolo a Wall Street, è vissuta però con malumore. Per almeno due motivi: perché significherebbe vendere a stranieri una delle bandiere americane (la famiglia di Cindy Hensley, moglie del candidato repubblicano John McCain, è tra i più grossi distributori di Budweiser), e ai simboli nazionali tutti i Paesi alzano ferree difese; e perché un’operazione di queste dimensioni, la prima dopo la crisi dei subprime, si teme possa essere replicata in altri settori, vista l’attuale forza dell’euro e la debolezza del sistema economico Usa. Strenuo oppositore agli «invasori» belgi è August A. Busch IV, presidente ed erede del fondatore, possessore di una quota del 4%; altro socio importante è il finanziere Warren Buffet (con il 5% è il secondo socio).
Inbev cerca di smorzare i timori sostenendo l’ottica di lungo periodo e i vantaggi per azionisti e consumatori. In realtà, la strategia dei belgi guarda lontano: perché nel portafoglio di Anheuser, oltre alla Corona, c’è anche un preziosissimo 27% di Tsingtao, birra leader in Cina, il mercato chiave - per dimensioni, per ritmo di crescita - per tutti i produttori.
Il mercato mondiale della birra, che continua a procedere sulla via delle concentrazioni, ha le logiche dei prodotti di larghissimo consumo. Contano soprattutto i posizionamenti geografici e i marchi. Le cifre stratosferiche che sostengono le acquisizioni «pagano» proprio questo. I grandi gruppi sono, in realtà, dei raggruppamenti di marchi. Poi, com’è logico, solo una quota relativamente modesta di prodotto viene fisicamente esportata, e si tratta di quella a maggior valore aggiunto, per la quale la percezione del cliente è tale da giustificare un prezzo più elevato; tutto il resto si produce localmente, nelle varie parti del mondo, allo scopo di ridurre i costi di distribuzione.
Se i primi quattro gruppi mondiali controllano il 44% della produzione, questo significa che spazio per la concentrazione ce n’è ancora molto; birrerie di dimensioni medio-grandi ce ne sono alcune, quali Carlsberg, Modelo e Tsingtao. Le birre «industriali» nel mondo sono circa 20mila (più un numero imprecisato ed enorme di produttori artigianali): si tratta di marchi regionali, spesso a proprietà familiare, ben radicate sul loro territorio e che, proprio per questo, confluiscono in gruppi internazionali. In questi anni c’è stato fermento di acquisizioni nell’Europa dell’Est, dove i consumi - a differenza dell’Europa - registrano crescite importanti, anche per le spinte governative tese a pilotare sulla birra i consumi dei superalcolici. In India e Cina, invece, l’aumento dei consumi segue di pari passo l’aumento del benessere.
La logica della concentrazione, dicevamo, è legata ai marchi e al mercato, come in altri prodotti di larghissimo consumo (esempio: caramelle e gomme). Solo parzialmente le acquisizioni sono mosse da esigenze di razionalizzazione e di risparmi, visto che comunque si tratta di un settore di ampi margini e profitti. Non va taciuto però, come sottolineano gli industriali del settore, che tutte le materie prime al servizio della produzione, agricole e non agricole, negli ultimi tempi hanno subito aumenti anche del 30%: dall’orzo al mais, dal riso al vetro, all’alluminio delle lattine, al costo dell’energia motrice. La politica dei marchi tende poi a posizionare i prodotti sui livelli più alti, quelli più redditizi.
Leader dei produttori in Italia è l’olandese Heineken (che proprio ieri ha chiuso vittoriosamente l’Opa da 200 milioni di euro sulle bevande della holding svizzera Eichhof), che ha una quota superiore al 30%, seguita da SubMiller e da Carlsberg.
I produttori italiani sono due soltanto, Forst-Menabrea, della famiglia Fuchs, e Castello, di proprietà di un consorzio di distributori. Gli italiani consumano 30 litri all’anno di birra ciascuno; in Sardegna il consumo è doppio. Heineken è il marchio di birra più diffuso nel mondo, Budweiser è il più venduto.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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