
L'Arabia Saudita avrebbe riscontrato alcuni problemi tecnici nel testare un sistema d'arma laser sviluppata in Cina. Riyad ha acquistato questo dispositivo da Pechino per proteggere le proprie infrastrutture strategiche, in primis stabilimenti petroliferi e sistemi di difesa missilistica. Il jolly proveniente dall'Asia si chiama SkyShield, definita dai media del Dragone come un'innovazione capace di abbattere sciami di droni a costi contenuti e per questo presentata dai sauditi con tanto entusiasmo. Pare, tuttavia, che dopo prove sul campo effettuate nei deserti locali siano emersi problemi non da poco. Ecco che cosa sappiamo.
L'arma laser cinese e i test a vuoto
Newsweek ha scritto che i test effettuati da SkyShield in Arabia Saudita non sono affatto andati bene. Nello specifico, le condizioni ambientali avrebbero gravemente compromesso le prestazioni del dispositivo. Tempeste di sabbia, polvere diffusa nell'aria, calore torrido e superfici ottiche degradate avrebbero indebolito il raggio laser, ostacolato l'acquisizione ottica dei bersagli e imposto tempi operativi troppo lunghi per essere efficaci in scenari reali.
Il cuore tecnico del problema risiederebbe nella fisiologia del sistema: il modulo laser, denominato Silent Hunter, deve operare in condizioni visive e termiche favorevoli, con ottiche pulite e una capacità di raffreddamento adeguata. Nei test sul campo sauditi, gli ingegneri hanno dovuto destinare una parte significativa della potenza al raffreddamento, lasciando poca energia residua per attaccare.
In alcuni casi, è stato necessario mantenere il laser acceso per quindici-trenta minuti per neutralizzare un singolo drone, un tempo troppo lungo data la velocità dei bersagli. Le condizioni desertiche avrebbero dunque messo alla prova i limiti teorici del progetto e rivelato che l'efficacia dichiarata durante le dimostrazioni controllate non si traduce automaticamente in affidabilità operativa reale.
I guai di SkyShield
Il flop dei test del SkyShield ha ripercussioni strategiche profonde. Le autorità saudite avrebbero già chiesto alla Cina di intervenire per adattare il sistema e renderlo più robusto in ambienti aridi, ma nel frattempo il potere deterrente del laser resta teoretico. Di fatto, l'unico asset che si è dimostrato costantemente efficace è stato il modulo di guerra elettronica (jamming), che si è dimostrato più affidabile nel disturbare i segnali di controllo dei droni, neutralizzandoli prima che potessero penetrare le linee difensive.
In attesa di migliorie tecniche sostanziali, quindi, Riyadh sembra riporre le sue (ancora molte) speranze non nei raggi luminosi, ma nelle tecnologie tradizionali — almeno fino a quando l’ingegneria non saprà trasformare la promessa spettrofotonica in una difesa concreta e operativa. L'Arabia Saudita non intende perdere tempo, visto che negli ultimi anni il Paese è stato ripetutamente preso di mira dai droni nemici. Nel 2019 sono stati sferrati attacchi contro gli impianti petroliferi di Abqaiq e Khurais, oltre che contro aeroporti e infrastrutture energetiche. Ecco perché il governo saudita intende rafforzare al più presto le proprie difese.
Ricordiamo nel frattempo che, tra le varie armi mostrate dalla Cina in occasione della maxi parata militare andata in scena a Pechino lo scorso 3 settembre, c'era un jolly misterioso che continua a interrogare analisti ed esperti.
Si tratta del Liaoyuan-1, abbreviato come LY-1, ossia un'arma laser che potrebbe ricoprire un ruolo altamente strategico all'interno dell'arsenale controllato dall'esercito cinese. Pechino continua dunque a puntare sulle armi laser.