Dinho, un E.T. col sorriso finito fuori giri

Dinho gioca dalla tribuna. In canottiera e occhiali da sole, come un tronista del pallone. La prima partita nel Flamengo è stata una fatica per gli altri e uno svago per lui: seduto a guardare dall’alto un pareggio. Poi la seconda in panchina. Fermo con il carico di aspettative che si trascina in Brasile. Dicono si alleni, come a rimarcare quello scarso impegno che aveva negli ultimi periodi milanisti. Forse è soltanto una questione di tempi: Ronaldinho ha perso i giri della carriera e forse della corsa. Vuole riprendersi qualcosa che neanche lui sa se gli appartiene ancora: la grandezza del dieci. A 30 anni chiede spazio per provare a rientrare in Nazionale: ma serve? L’Italia gli ha dato opportunità che ha sprecato. Il Brasile può essere il rilancio o la fine. Allora viene da chiedergli perché adesso? Era nel centro del mondo pallonaro, poteva provare, poteva impegnarsi, poteva dare un senso al suo mondo. È vero che era già abbastanza tardi quando sbarcò a Milano. Anche all’epoca un problema di tempismo, suo e nostro. Il calcio italiano avrebbe potuto prenderlo prima. Quando era in Francia si poteva comprare: il Paris Saint Germain era anche in crisi, i diritti di immagine ce li aveva Canal Plus. Era un affare facile, a volerlo fare. Era un'idea geniale: a 23 anni, come è stato per tanti altri. Poi anche col Barça si poteva insistere qualche tempo fa. Era lì, costoso come adesso, ma più forte, più deciso, più convinto, più motivato. Meno ricco, meno famoso, meno appagato. A 27 anni forse non ne valeva la pena. Perché era anche un grande artista, ma aveva deciso di non essere più se stesso. La fantasia, la gioia, il divertimento: c’eravamo innamorati tutti di quel giocatore. Quante volte si leggeva in quel periodo la storia del campione diverso? Quante quella dei sorrisi, della gioia di vivere e giocare? Dinho era un’immagine splendida: la rovesciata, l'elastico, il pollice e il mignolo aperti e agitati dopo il gol.
Uno ha quell'idea in testa e non gliela togli più, anche se le rovesciate spesso vanno in tribuna e se il pollice e il mignolo sono quasi sempre fermi. C’erano le domande: e se fallisce? Se sbaglia? Già aveva la faccia di quello che aveva smesso di fare l'amore con l'allegria. E noi, invece, lo ricordavamo come quello che ti rimetteva al mondo, ti riportava all'infanzia, ti faceva godere. L'hanno venduto così e così ce lo siamo presi. Era troppo bello: «Il mio segreto è semplice: sono rimasto bambino». Il simbolo della felicità: i denti sporgenti, i capelli ricci e il sorriso fisso. «Ride sempre, pare che c'ha 'na paresi», disse una volta di lui Francesco Totti. Una punta d'invidia e una di incertezza. Dinho emblema della beatitudine, l'uomo che tutti vorrebbero essere: bravo, ricco, famoso, allegro. Felice. Ribaltava il concetto che vuole i campioni tristi nonostante la fortuna. Lui era il sospiro di sollievo che viene agli esseri viventi comuni, quelli che pensano che il successo dia gioia. Allora Ronaldinho correva. Non poteva: dopo Parigi, Barcellona, Tokyo, Berlino. Hexacampeao: questione di Stato in Brasile, questione di vita per lui. Aveva già vinto, ma all'epoca non era nessuno. Poi è diventato tutto, è diventato l'allegria, è diventato il suo Paese, è diventato il mondo.
Gli extraterresti del pallone sono tutti uguali: i salvagenti a cui ci si aggrappa per non affondare. Sono quelli che fanno sempre la cosa giusta: un tocco, un passaggio, un tiro, un gol. Ronaldinho per tanto tempo non ha sbagliato anche fuori: sorrideva e andava, ecco il «calcio come dovrebbe essere».
Adesso sappiamo che non è quella cosa lì. Provoca istintiva simpatia, suggerisce interesse, innesca tenerezza. Ha fatto divertire il possibile, senza però fare quello che avevamo immaginato al suo arrivo. Il Brasile è casa e di sicuro più libertà. La libertà, il ritmo giusto, la grandezza passata che può diventare presente. Se si fa mettere in campo, se si fa trovare in condizioni decenti per farsi convocare e schierare titolare, Dinho è ancora uno da guardare. Ci sono molti se, certo. È il destino di chi crea aspettative e poi le delude: la seconda volta tutti diventano diffidenti. Lui, però, sorride di nuovo: davanti alle macchine fotografiche che l’hanno intercettato il giorno della sfilata sull’autobus che annunciava la firma del suo contratto. Felice e speriamo per lui vincente. Felice e speriamo per il Flamengo, giocante. Tornare a casa dicono gli farà bene. A Rio c'è Roberto, il fratello. È l'idolo e ora anche il padre di un bimbo che si chiama Diego, in onore di Maradona. Il Ronaldinho del futuro è lui, più che il figlio Joao: «Diego è più bravo di me, migliore di mio fratello che è stato nazionale brasiliano. Imita sempre quello che faccio. E ha bisogno di poco tempo per farlo... E gli riesce meglio. Se faccio qualche cosa nel giardino subito vedo che si allontana e prova: una, due, tre volte finché gli riesce e continua a ripetere».

Ha provato anche con le traverse. Ve lo ricordate lo spot truffa con Dinho che colpisce di seguito la traversa cinque o sei volte al volo senza mai far cadere la palla per terra? Ecco forse Diego ci riuscirà davvero, un giorno.

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