Dino Abbrescia, dalla strada tra spinelli e lacrimogeni alle gag con Abatantuono

A colloquio con il caratterista emergente, lanciato da Salvatores, irresistibile spalla di Diego «Mastrangelo» in tv, nelle sale con «Cardiofitness» e prossimo eroe dei Vanzina

Avete presente lo strano figuro tutto denti, catena al collo, camicie da saldi per cessata attività, addobbato come un telemago che legge tarocchi e stelle, commerciante di automobili mezzo fallito, furbetto con le femmine, eccezione fatta con la moglie sua, la povera donna? Ripensate al Giudice Mastrangelo, miniserie televisiva con Diego Abatantuono e vi appare il figuro, Gerardo, in arte Dino Abbrescia, o forse Abbrescia Dino in arte Gerardo. Eccolo, dunque, l’emergente, come si usa dire e scrivere, attore per caso ma forse, per questo, giusto, aderente ai ruoli interpretati, in quasi dieci anni di carriera tra cinema, teatro, oggi tivvù, passando da Alessandro Piva (Minuicchio, uno dei due balordi postini di droga ne LaCapaGira) a Salvatores (Il padre del bambino che scopre e salva il rapito in Io non ho paura), da Michele Soavi (La Uno bianca) ad Antonio Albanese (Il nostro matrimonio è in crisi) e al recente Cardiofitness di Tagliavia e altro ancora, recitati con quella faccia un po’ così, da schiaffi e da carezza , come accadeva ad Alfredo il poliziotto, suo padre, duro e puro negli anni più duri e meno puri della storia italiana, nelle strade, nelle fabbriche, nelle scuole: «Un’infanzia difficile, a Napoli qui mio padre era stato trasferito da Bari, dove sono nato, dove la mia famiglia ha origini e poi ha vissuto. Tredici anni aspri, le scuole, elementari, medie, la strada come nido quotidiano mentre mio padre faceva i conti con le P38 e le manifestazioni di piazza e tornava a casa senza una sola luce negli occhi, con la rabbia, la cattiveria, il silenzio che scaricava su di me: “tu fai pure i tuoi casini ma sappi che io non ti porterò le arance in carcere!”. Lui era stremato, ero stremato anch’io, mia madre Rosa continuava invece la sua vita di sempre, a cucire, a cucinare, pasta, panzerotti, come ieri, come oggi, come non accadrà mai più».
La pagina sofferta di diario resta aperta perché Dino Abbrescia non pensava al teatro e al cinema, pensava alla strada, tra il fumo dolciastro degli spinelli e il fumo acre dei lacrimogeni , la peggio gioventù dirimpetto a una generazione antica e incattivita. Abbrescia frequentava, si fa per dire, ragioneria, Alfredo voleva farne un impiegato dello Stato, fedele, non poliziotto, mai: «Ma non me ne fregava nulla della scuola, il testosterone spingeva, mio padre volle che mi iscrivessi all’istituto professionale di odontotecnico. Cinque anni incredibili, mi faceva schifo la saliva, mi facevano schifo i canini e gli incisivi, le protesi e le carie ma dovevo mangiare, con le bocche degli altri, per sfamare me stesso, per aiutare a sfamare Alfredo, Rosa, mia sorella Cecilia. Eravamo tornati a Bari, ero «spatriato», quella non era la città della mia infanzia, avevo smarrito il mio presepe, i miei amici. Ma bisognava vivere, ancora con i fumi e l’eco di battaglie, ancora con la voce forte di mio padre che non ammetteva il contraddittorio, il dialogo; per lui soltanto famiglia, legge, onestà, il resto era immondizia. Mi riscoprii rivoluzionario per forza, ma quando scoppiavano i disordini io scappavo, non mi piaceva la battaglia, odiavo la violenza sanguinaria, assassina. Mio padre aveva vinto, mi aveva trasmesso il suo senso di onestà».
Ma dove stava l’attore Abbrescia? «Mi misi a lavorare per una ditta di forniture dentarie: resine, trapani, protesi. Ero bravissimo con le parole, riuscivo a convincere i clienti, vendevo parlando senza bisogno di illustrare il prodotto, un milione e duecentomila lire al mese lo stipendio, guadagnavo più di mio padre, fu un’altra ferita. Frequentavo un gruppo di amici teatranti, attori, artisti. Stavano preparando Aspettando Godot. Avevano bisogno di un montatore delle scene, la vita d’avventura mi affascinava. Una sera venne a mancare il messaggero, quello che deve soltanto dire «Godot si scusa, arriva domani». Era la mia ora. Fu la mia ora». Quarantamila lire lorde e Beckett si ritrovò un barese, mezzo sessantottino, traslocato dalla piazza al palcoscenico: «Incominciai così, con la compagnia teatrale tra Bari, Roma, Milano, Goldoni, Fassbinder, roba bella e tosta». E Alfredo? «Papà non diceva nulla ma un giorno scoprii nel suo cassetto i ritagli dei giornali con gli articoli che mi riguardavano, l’attore giovane Dino Abbrescia. Venne il giorno del suo addio, fu l’unico momento in cui mi chiamò a sé: «Vieni qui, òccupati di tua madre, di tua sorella» un mormorio, non altro, un testamento di affetto, dopo il silenzio lungo una vita. Ho recitato ruoli di poliziotto, di viceispettore, in divisa, mio padre vive dentro di me. Oggi sono in corsa, Diego Abatantuono è per me un maestro fantastico, genuino, parliamo in dialetto barese, spesso recitiamo a soggetto. Stiamo girando Italia 2061, un film di Vanzina su un gruppo di patrioti, in un’Italia senza energie ed energia, un giorno lontano, noi alla ricerca di qualcosa che la faccia risorgere, Diego è il condottiero di un’armata che conta Ceccherini, Placido, Solfrizzi, Anna Maria Barbera, Sabrina Impacciatore, a luglio concluderemo questo viaggio. Il teatro? Non lo metto più nelle priorità. La televisione? È delirante, schizofrenica, superficiale, arriva il produttore fresco di Bocconi e dice che non va bene nulla, ma chi è lui? Il cinema offre la libertà, La CapaGira, premiato a Berlino, resta un punto di riferimento, senza transenne, senza censure, senza doppiaggio, in dialetto barese, girato con mezzi scarsi e una qualità eccellente.

Ho un film in mente, una mia sceneggiatura, due fratelli poliziotti, uno mite, dolce, l’altro perfido, cattivo». Ancora la divisa, ripensando ad Alfredo, al fumo delle strade, alle protesi, ringraziando il messaggero di Beckett. Stavolta Godot è arrivato.

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