da Edimburgo
Whisky, tweed e paesaggi: il segreto della scozzesità sta nell'essere universalmente riconoscibile e prêt-à-porter. Se la comica Janey Godley ha ragione, allora nell'ordinatissima e silenziosa fila per salire all'esplanade del Castello di Edimburgo siamo tutti con un bagaglio di gioiosa scozzesità in mano. Sta per iniziare una delle 24 serate del Royal Military Tattoo e a giudicare dai dettagli di tartan che dilagano tra il pubblico come colorati ed eleganti esantemi, siamo nel pieno di una di quelle epidemie di empatia per cui ti chiedi perché anche a Milano non ci si possa vestire soltanto così, come i Macleod del Corvetto o i Mackenzie di Cordusio.
La fila avanza su Castlehill, l'ultimo tratto del Royal Mile transennato. Età media altina, parecchi americani, molti scozzesi, tutti comunque emozionati. I venditori del programma della serata e l'odore di crauti e fish and chips lo fa sembrare l'ingresso ad uno stadio per un'amichevole di lusso. Fino a due ore prima qui era l'orrore. Per salire al castello occorreva fare a spintoni tra i turisti in cerca di souvenir e gli artisti di strada del chiassoso e giovanilistico Fringe festival (a proposito, in contemporanea se ne tengono pure altri due, del libro e del teatro, e la città raddoppia la sua popolazione al limite dell'ingestibilità). Ora invece è un'isola di quiete, come prima di una messa.
D'altronde cos'è il Tattoo se non la spettacolare celebrazione laica della scozzesità, appunto? Forse non sarà «the greatest show on Earth», ma di sicuro da 67 anni è la parata - militare e non solo - più seguita e amata. Per dare un'idea: dal 2000 biglietti sempre esauriti e ogni anno 220mila spettatori e 10 milioni di sterline al botteghino. Così ogni sera alle 21, per una ventina di giorni di agosto, 8.800 spettatori dagli spalti e 40 Paesi collegati in diretta tv seguono lo show di musiche e coreografie, stavolta dedicato alla Royal Navy, la marina pietra fondante del British Empire.
Ma al netto di chi è qui mosso da istinti militareschi, quello che porta molti a spendere anche 370 sterline per un posto nel palco è l'atmosfera. Prima sfilano a turno i membri di due clan in abiti tradizionali, poi il brindisi tra gli ufficiali. Un raro, inestimabile sole sfuma dietro gli spalti, verso Princes Street, come a lasciare il palcoscenico ai veri protagonisti, ovvero ai battaglioni delle «Massed Pipes & Drums», la fanfara di cornamuse e tamburi. Sono tutti qui per loro.
Ora, ci deve essere qualcosa di atavico nella vibrazione bassa delle cornamuse, come nel didgeridoo per gli aborigeni australiani. Dalle musiche di apertura col corpo di ballo tradizionale, il Ceilidh, fino ad Auld Lang Syne e alla trascinante Scotland the Brave nel finale, il loro suono è un mantra che amalgama e commuove. Ti senti un provincialotto, ma ti immedesimi proprio. Reazione un po' infantile, vero, ma per il cinismo snob ci sarà spazio quando l'ultimo kilt sarà uscito dal castello.
Il fatto è che nella loro celebrazione dell'anima di un popolo, gli scozzesi sono difficili da battere perché all'orgoglio nazionale uniscono l'ironia della coreografia, navi vichinghe in fiamme, fuochi d'artificio e giochi di luce sui torrioni della fortezza. Ogni piccola pacchianeria (le finte operazioni di volo e le immagini da videogioco sul castello per esempio) si redime nei movimenti marziali e perfetti delle bande che si susseguono, invitate per l'occasione: la marina indiana coi ballerini in stile Bollywood, la geniale fanfara francese che reinterpreta i Daft Punk, i tamburi rituali e i combattimenti in katana ad accompagnare quella giapponese.
Poi, quando ormai è quasi buio, dopo God save the Queen le cornamuse intonano Hallelujah. Le luci si spengono e dai merli del castello, unico puntino illuminato, spunta il Lone Piper, sacerdote solista con la sua cornamusa.
Dà i brividi, o forse è il vento che soffia dal Fife of Forth. E quando le fanfare intonano il gran finale ripensi alla camicia di flanella scozzese che ti obbligavano a mettere da piccolo. Pungeva, la detestavi, ora non metteresti altro.MZuc
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