Lo dicono tutti gli addetti ai lavori: il voto dei senatori a vita sarà determinante per la sopravvivenza del governo, quando a PalazzoMadamasi voterà la fiducia. Forse lo sono stati, qualche volta, anche in passato, ma casualmente. Ora invece, in un passaggio che è decisivo per la falange di Prodi (non potremmo preoccuparcene meno) ma anche per l’immediato futuro d’un Paese «sfilacciato» (e questo sì ci inquieta), il sì e il no dei senatori a vita equivale a una sentenza: di vita o di morte. Su di loro, e solo su di loro, il presidente del Consiglio ripone le sue estreme speranze. Anche se non è detto sia sufficiente.
Roberto Manzione, che con Willer Bordon è stato molto critico nei confronti di Prodi, ma che si pronuncerà in suo favore, ha bene riassunto il problema. «La situazione di partenza era di 158 voti per il centrosinistra e 156 per il centrodestra. Con l’Udeur che esce dalla maggioranza il centrosinistra passa a 155 voti e il centrodestra a 159. Franco Turigliatto (che dall’Unione si è staccato perché da lui giudicata troppo timida negli slanci sociali, ndr) come vogliamo considerarlo? Rimane il fatto che senza il voto dei senatori a vita il governo non ha più una maggioranza autonoma al Senato».
Questi sono i numeri, e nessun contorsionismo dialettico può cambiarli. La fama di fortunato che ha accompagnato il professor Prodi servirà a poco, se non interverrà, per toglierlo molto provvisoriamente dai guai, qualche rugosa e soccorrevole mano. Rispetto - anche per colleganza anagrafica - i senatori a vita e il loro ruolo, se correttamente inteso. Si può dubitare dell’opportunità di attribuire, a cittadini che abbiano particolari benemerenze, questo riconoscimento. Si può eccepire sulle scelte delle singole persone, scelte che in più d’un caso, e con tutta evidenza, sono derivate da criteri di elargizione politiche e non di civica benemerenza.
Ma poiché la categoria dei senatori a vita esiste ritengo sia doveroso, nelle opportune occasioni e con i necessari distinguo, onorarla. Non la ritengo estranea alle vicende è politiche, ritengo che debba parteciparvi. Però in forma diversa. Con la consapevolezza - che è anche altezza morale - di chi siede in Senato non come rappresentante d’una parte o peggio d’un partito, ma come simbolo delle qualità migliori che l’Italia ha espresso.
Questa diversità si traduce amio avviso, nell’incombere di scadenze della politique politicienne, in un diritto e dovere a non partecipare, esimendosi dal voto. Non spetta ai senatori a vita il far pendere l’ago della bilancia da una parte o dall’altra, negli scontri che caratterizzano le vicende del Palazzo. Sono inquilini privilegiati, mandati nelle stanze dei bottoni non dal popolo ma da una cooptazione di veri o presunti saggi. La loro discrezione deve giustificare il loro essere a vita, a differenza dei parlamentari comuni.
Queste cose che esprimo in maniera forse un po’ sempliciotta, ignaro come sono di molti misteri romani, il presidente Napolitano le ha sintetizzate un anno fa - quando rinviò alle Camere il governo Prodi già in affanno - in una formula precisa. Il governo deve essere sostenuto da una maggioranza «politica»: ossia, in chiaro, una maggioranza di parlamentari eletti dagli italiani, non designati dall’alto. A questo punto mi pare che il Quirinale, più che il naufrago Prodi, sia messo alla prova: che debba cioè adeguarsi, in concreto, al principio così solennemente enunciato.
Lo scrivo pur sapendo che le risorse della dialettica e della sofistica imperversanti nell’arena pubblica sono infinite, e che il cavillo domina. Mi conforta tuttavia la stima che ho per il Presidente, e per la sua parola.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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