Gli Stati Uniti stanno stampando moneta all’impazzata. È un gioco piuttosto pericoloso, più simile al Monopoli che all’economia reale. Se a farlo fosse un privato sarebbe una truffa. Se a condurre la pratica è la-Banca centrale si chiama pomposamente quantitative easing . La questione potrebbe sembrare roba da tecnici finanziari. Ma così non è. Vedremo come ci riguardi molto da vicino. Come la leggerezza americana aiuti la candidatura di Mario Draghi alla guida della Banca centrale europea. E come entrino nella partita, tutta italiana, alcune centinaia di milioni di euro in tasse che dovrebbero pagare, tra le altre, Unicredit e Intesa.
I numeri dicono tutto semplicemente. Oggi se un risparmiatore si azzardasse a comprare un titolo di Stato a stelle e strisce, prima dovrebbe passare alla neurodeliri, e poi alla mensa dei poveri. I titoli americani rendono abbondantemente meno dell’inflazione: per arrivare ad un tasso che li protegga dall’aumento dei prezzi si deve andare su titoli a sei anni. Insomma, chi ha in tasca un Treasury americano perde soldi. E, infatti, a comprarli (stampando così moneta) è praticamente solo la Banca centrale americana, la Fed. Il dollaro si sta svalutando come la liretta degli anni ’ 80. Obama come Craxi.L’inflazione minaccia di risalire, ma, in compenso, grazie al dollaro debole, volano le esportazioni delle imprese americane e Wall Street è arrivata ai massimi degli ultimi tre anni. Droga allo stato puro, raffinata nei laboratori delle svalutazioni competitive, che ben conosciamo. L’Economist , ieri in copertina, retoricamente si chiedeva:«Che cosa è sbagliato nell’economia americana?». Tutto: politica monetaria e spesa pubblica da brivido. Bill Gross, il superboss di Pimco, uno dei più grandi fondi obbligazionari del mondo, non compra più da tempo un bond americano. E siccome qualcosa deve pur mettere in portafoglio, è andato a fare shopping in giro per il mondo. Portandosi a casa anche i nostri Btp. Il paradosso è dunque che la politica monetaria facile americana obbliga i gestori d’Oltreoceano a sostenere le aste europee, contribuendo così a mantenere bassi i nostri tassi di interesse.
Ma, dicevamo, tutto ciò riguarda anche il nostro Draghi. Il modello europeo è diametralmente opposto a quello americano. La nostra locomotiva si chiama Germania. Cresce il doppio degli Stati Uniti, ha una disoccupazione più bassa, inflazione identica. Ma con tassi di interesse che la Banca centrale europea ha aumentato, per la prima volta da tre anni, pochi giorni fa. In Europa c’è una fissazione sul rigore dei conti pubblici e sul contenimento dell’inflazione. La Bce non guarda altro. E Draghi, l’uomo di Goldman Sachs, il burocrate che Eugenio Scalfari descrisse come uno yuppie ai tempi delle privatizzazioni, in realtà è molto più vicino all’ortodossia di Francoforte che a quella di New York. Nel suo piccolo, si fa per dire, ha da mesi informalmente chiesto alle banche, sottoposte alla sua vigilanza, di rafforzarsi patrimonialmente e, nel contempo, di drenare liquidità dal sistema. Sono gli strumenti per raffreddare una ripresa, che da noi è tutt’altro che effervescente, e bloccare ogni spunto di inflazione. È, al contempo, un segnale di pura fedeltà al modello tedesco. La nomina dell’attuale Governatore della Banca d’Italia apre un fronte interno non di poco conto. L’inquilino di via Nazionale è la cinghia di trasmissione delle politiche monetarie decise a Francoforte.
E in questo ruolo è più o meno un pensionato di lusso. Ma al Governatore spetta anche la fondamentale vigilanza creditizia: in sostanza, la possibilità di mettere becco nei conti e dunque nella struttura del sistema bancario italiano. Le procedure di nomina coinvolgono tutti. Manca solo Topolino. La firma è del presidente della Repubblica; ma premier, Consiglio dei ministri e Banca centrale dicono la loro. In gioco sono sostanzialmente solo in due. L’attuale erede naturale di Draghi, e cioè il suo direttore generale, Fabrizio Saccomanni. L’uomo macchina dell’istituto di vigilanza,apprezzato dal Quirinale. E il direttore generale del ministero del Tesoro, Vittorio Grilli. La vulgata lo vuole come candidato preferito dal ministro dell’Economia, Giulio Tremonti. Ma è proprio questo che spaventa le grandi banche e le Fondazioni azioniste, che non hanno ovviamente il coraggio di dirlo pubblicamente.
Concentrare l’influenza sul sistema creditizio domestico nel giro del ministero dell’Economia rappresenta per loro un rischio. Un ministero che, attraverso la longa manus dell’Agenzia delle entrate, ha giudicato elusive molte pratiche fiscali adottate nel passato dagli istituti italiani. Compresi Unicredit e Intesa, che sono in trattative con il fisco per accertamenti miliardari. Se alla leva fiscale si aggiunge quella ispettiva, si potrebbero perdere molti spazi di autonomia.
Quando si dice l’eterogenesi dei fini: grazie al lassismo della politica
monetaria americana, Mario Draghi ha una strada spianata per la Bce e per le banche italiane si apre l’infausta prospettiva di un maggiore e più stringente controllo ministeriale.blog.ilgiornale.it/porro
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