Don Stefano, prete dagli occhi a mandorla

«La vocazione? L’avevo prima di nascere. Nella mia famiglia due figli su tre hanno preso i voti»

Marina Gersony

«La vocazione? L’avevo già nel grembo materno. Nella mia famiglia due figli su tre si sono fatti preti». Park Duck Soo, meglio noto come don Stefano, è il cappellano della comunità dei coreani a Milano e provincia, ospite della Parrocchia San Gottardo al Corso. Fa parte di quelle strutture specifiche (missio cum cura animarum, parrocchie e cappellanie etniche) per la promozione di un’azione pastorale tra le comunità dei migranti.
Nato nel 1956 a Taegu, città della Corea gemellata con la capitale lombarda, è arrivato in Italia nel settembre 2002 dopo aver fatto richiesta al suo vescovo. Prima tappa a Firenze, o meglio a Loppiano, cittadella internazionale del Movimento dei Focolari, un Eden «in miniatura» che sperimenta formule inedite di convivenza e di reciprocità. «Frequentavo una scuola sacerdotale dove venivano a studiare da tutto il mondo - ricorda -. Un’esperienza istruttiva ma dopo due anni ho chiesto di venire a Milano».
Oggi don Stefano guida la Comunità dei Santi Martiri Coreani: «La domenica, alle 11.30, ci raduniamo nella Chiesa di San Rocco al Gentilino in piazza Tito Lucrezio Caro dove celebro la messa in coreano - racconta -. Prima di noi, alle 10, si svolge la messa in latino secondo l’antico rito ambrosiano anteriore al Concilio Vaticano II». E in questa parte della città, dove i fedeli possono ancora trovare un’oasi per l’anima con le antifone cantate e con il Gloria, il Sanctus e il Credo della Missa de Angelis, Padre Stefano passa le giornate a disposizione dei suoi connazionali: «Ci incontriamo per pregare e per studiare la Bibbia; regolarmente visito le famiglie e ogni mercoledì sera organizziamo dei tornei di calcio in un campo di Opera. Prendo anche lezioni d’italiano una volta alla settimana da un’insegnante molto paziente. Posso inoltre contare sulla presenza di don Fabrizio, un sacerdote formidabile, sempre disposto ad aiutarci».
Don Stefano parla con rispetto della sua comunità, dove ci sono studenti, designer, cuochi e soprattutto appassionati di musica. Nei corridoi dei conservatori, e non solo di Milano, i cantanti coreani sono numerosissimi. Ma quanti sono in città i rappresentanti di questo popolo solare e cortese, ammirevole per la disciplina e l’ordine? A ben vedere la loro presenza si avverte nella nostra vita quotidiana grazie alle loro automobili, ai televisori e ai computer made in Corea, ma anche al ginseng e alle palestre di taekwondo, sport nazionale apprezzato anche dagli italiani. «A Milano siamo circa 2.000 così come nella Capitale. In tutta Italia siamo tra i 6.000 e i 7.000, inclusi coloro che sono in attesa del permesso di soggiorno», spiega il professor Min Sang Cho, da vent’anni nel capoluogo lombardo, presidente del Centro Ricerche Culturali fra Corea e Italia e direttore di un mensile bilingue per diffondere la cultura coreana in città (si chiama Noi, Cricci) -. I coreani vengono qui in genere per studiare e poi tornano a casa».


Del resto la Corea (parliamo di quella del Sud), ha avuto un processo di crescita impressionante nell’economia mondiale, tanto da essere considerata una delle quattro tigri asiatiche. Forse anche don Stefano pensa un giorno di ritornare: «Per me non è facile stare qui. Nel mio Paese è tutto più semplice. Nonostante l’individualismo stia crescendo anche là. I soldi sono l’unica cosa che conta».

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